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Il Parlamento, il voto segreto e la buona politica

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di Luciano Sesta

 

 

Negli scorsi giorni la cronaca politica è stata caratterizzata dall’ennesimo scontro intorno al ddl Cirinnà. Più in particolare, è emersa in Parlamento una controversia intorno alla richiesta di procedere alla votazione del testo di legge in scrutinio segreto, con l’intento di tutelare la libertà di coscienza dei parlamentari, chiamati a esprimersi su questioni moralmente dedicate come quella delle adozioni gay. Al di là del tema delle unioni civili, è emerso qui un ricorrente nodo di etica politica, che ha a che fare anche con l’assenza di vincolo di mandato prevista dall’art. 67 della Costituzione.

 

In base a questa norma, com’è noto, i rappresentanti del popolo eletti in parlamento svolgono il loro ruolo «senza vincolo di mandato», o, come si dice, con un «mandato generale», in base a cui il parlamentare è giuridicamente responsabile non soltanto verso i propri elettori, ma anche verso l’intera nazione. Ciò implica che quando si tratta di votare una legge, per esempio, il singolo parlamentare tenga conto, certamente, del programma in base a cui è stato eletto, ma che al tempo stesso, soprattutto quando subentrano fattori nuovi e non prevedibili, sia chiamato a decidere secondo coscienza. Il che non significa in base al proprio arbitrio, ma in base a ciò che egli ritiene giusto, ossia conforme al bene comune, e non soltanto della parte di popolo che lo ha eletto.   

 

Ora, in una simile situazione, il voto segreto ha i suoi pro e i suoi contro. Chi, in sede di voto, desidera che la propria decisione in coscienza rimanga segreta, si sottrae al giudizio dell’elettore, che così non ha elementi per valutare il proprio rappresentante in Parlamento e, eventualmente, per non votarlo in successive elezioni. D’altra parte la segretezza protegge la libertà di coscienza del parlamentare, che non può ridursi a essere ostaggio dell’elettorato e deve poter avere libertà di sottrarsi ai diktat del partito di appartenenza, soprattutto quando sono in gioco questioni moralmente discusse e discutibili.

 

Con un po’ di disincanto, si potrebbe far notare che il politico italiano mediamente è un voltagabbana, e dunque dimostra di non avere alcuna coscienza di cui difendere la libertà. Il voto segreto, in un contesto caratterizzato soprattutto dall’attaccamento alla poltrona, diventa un ottimo stratagemma per salvare “capra e cavoli”. Perciò, invocando trasparenza, molti, fra i quali lo stesso Presidente del Senato Pietro Grasso, hanno ritenuto doveroso il voto palese.

 

 

Una possibile via di uscita da questo vicolo cieco potrebbe essere una maggiore visibilità dell’agenda “etica” dei singoli politici, al di là degli schieramenti di appartenenza. In tal modo si eviterebbe che, con la scusa della “libertà di coscienza”, i partiti nascondano una morale indecifrabile, che sbuca fuori all’improvviso in occasione di certe decisioni politiche, e che lascia spesso nell’elettorato eventualmente in disaccordo l’impressione di essere stato tradito dai propri rappresentanti. Sui temi etici, in altri termini, non vi sarebbero né indicazioni di partito né libertà di coscienza “a scatola chiusa”, ma alleanze trasversali fra i politici che condividono la medesima agenda etica, preliminarmente resa nota agli elettori. Si eviterebbe anche che la logica del compromesso, caratteristica della politica, metta in pericolo la tutela di diritti giudicati irrinunciabili, e che dunque non possono rimanere alla mercé della volontà dei parlamentari. Secondo alcuni questo potrebbe anche portare all’eliminazione dell’art. 67 della Costituzione.

 

 

Senza escluderne gli aspetti più apprezzabili, si deve dire che questa proposta rischia di ripiegare su una concezione troppo pragmatica e disincantata della politica, che finisce per alimentare il carattere “partigiano” del dibattito sui temi etici. In un’ottica più ideale, non bisognerebbe invece stancarsi di esigere, dai politici, una fedeltà al bene comune piuttosto che alla propria poltrona. Anche chi si fa eleggere sulla base di un programma etico, infatti, si espone a una certa logica dello scambio, che il voto palese finisce per alimentare. Ne hanno dato prova gli stessi partecipanti al Family Day, i quali, con lo slogan “Renzi ci ricorderemo”, hanno giocato in fondo sull’attaccamento alla poltrona come arma di ricatto politico. In tal modo ci si rassegna all’idea che un politico, anche quando vota una legge che si imporrà a tutti, rappresenti solo i propri elettori, piuttosto che l’intera nazione, come invece vorrebbe l’art. 67 della Costituzione. L’assenza di vincolo di mandato, in tal senso, non significa che il politico è autorizzato a tradire il proprio elettorato, ma che piuttosto è chiamato a educarlo, se così si può dire, a capire che quando la propria decisione coinvolge tutti, deve tenere conto anche del disaccordo della minoranza.

 

  

Andrebbe ricordato, a tal proposito, che una decisione che coinvolge tutti è politicamente giusta non quando esprime il punto di vista della maggioranza, né quando tutti sono d’accordo, ma quando può essere accettata anche da chi non la condivide. Altrimenti la democrazia si trasforma in dittatura, benché provvisoria, della maggioranza sulla minoranza, che diventa oggetto, piuttosto che soggetto, delle decisioni politiche. A ricordarcelo, istituzionalmente, è non solo la Corte costituzionale, che con il sindacato di costituzionalità delle leggi incarna un punto di vista super partes, non limitato dunque dalla dialettica fra maggioranza e minoranza, ma anche la presenza, in Parlamento, dell’opposizione, che esprime, anche fisicamente, la necessità che il politico decida tenendo conto della nazione, non solo del proprio elettorato. Il voto segreto, da questo punto di vista, se da un lato costituisce per il politico una tentazione di barare, dall’altro lato rappresenta un costante richiamo ad assumersi una responsabilità specificamente politica, ossia a valutare i problemi tenendo conto del bene comune, al di là non solo della propria poltrona, ma anche di chi minaccia di togliergliela se egli non farà quanto gli si chiede. Ciò aiuterebbe anche l’elettorato a mostrare maggiore lealtà nei confronti dei propri avversari politici, sia in Parlamento, sia nella società civile, nella consapevolezza che gli altri potrebbero evidenziare un aspetto del bene comune che, forse, sfugge al proprio punto di vista. Se in Italia assistiamo invece a continue risse verbali più che a un vero dibattito politico, ciò accade probabilmente anche perché ciascun attore rappresenta sempre e solo se stesso e la propria conventicola, incapace di innalzarsi al livello di uno sguardo politico nel senso più alto e nobile della parola.

 

Ci sembra che l’assenza di vincolo di mandato, nel suo più genuino significato, sia al servizio di questo sguardo autenticamente politico. Certo, la possibilità che, in taluni casi, il politico decida nella solitudine della propria coscienza, è un rischio. Ma è un rischio che dobbiamo continuare a correre, perché senza di esso svanisce anche la speranza che, un giorno, la politica possa davvero tornare a essere, da riflesso dei conflitti sociali e civili, arte del buon governo, ossia sincero impegno di fare la cosa “giusta”, anche se non è a tutti che appare tale.

 

 

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