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Il matrimonio e la legge del mercato

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di Giuseppe Savagnone

 

Non ha suscitato particolare clamore – né, del resto, c’era da attenderselo – l’approvazione da parte della Camera dei deputati della nuova legge sul divorzio, che riduce i tempi a soli sei mesi, per quello consensuale, a dodici per quello conflittuale. Forse hanno soprattutto stupito – ma neanche troppo – le modalità con cui si è arrivati a questa approvazione. Per citare l’articolo del «Corriere della sera» del 30 maggio scorso, dove – ovviamente con pieno favore – si dà la notizia, «sono passate soltanto due settimane da quando la commissione Giustizia di Montecitorio ha dato il via libera ad un testo emendato che aveva trasformato il divorzio già breve in divorzio brevissimo». E poi, in aula, un sì corale, da “maggioranza bulgara”: 381 voti a favore, 30 i contrari, 14 gli astenuti.

Quando si dice “l’inarrestabile avanzata del progresso”! Questa nuova legge, ha detto soddisfatta la relatrice, Alessandra Moretti, del Pd, «finalmente adegua la nostra legislatura [sic!] a quella europea». E il sottosegretario Ivan Scalfarotto ha parlato di «conquista di civiltà che l’Italia attende ormai da troppo tempo». Dal testo finale è stata anche cancellata la riserva che, in una prima versione, prolungava i tempi nel caso vi fossero dei figli minori. E ora si spera in un iter altrettanto celere al Senato, dove finalmente le nuove regole diventeranno definitive.

Non si può dire che la nostra classe politica non si occupi della famiglia! Certo, qualche maligno potrebbe insinuare  che è più brava a lavorare per il suo scioglimento che per il suo rafforzamento. Le statistiche dicono che l’Italia destina all’istituto familiare meno della metà della media dei paesi europei. I nostri governi, di centro-destra o di centro-sinistra, non sono mai riusciti a trovare i soldi per garantire ai coniugi la possibilità di avere dei figli e di mantenerli decentemente, fin da piccoli. Come invece avviene praticamente  in tutte le nazioni dell’Europa (si badi, ance in quelle, come la Spagna, che hanno difficoltà economiche simili o maggiori rispetto alle nostre).

 

 

Per fortuna i nostri parlamentari hanno saputo rimediare a questo vergognoso ritardo e ci hanno portato, elaborando e approvando la nuova legge sul divorzio, al livello europeo. Aiuti per chi ha dei figli no, però chi vuole mollarli ora lo può fare in sei mesi. «Ma la tutela dei figli non è in discussione», ha tenuto a chiarire l’altro relatore, Luca D’Alessandro, di Forza Italia, perché  «è garantita dalle norme sull’affido condiviso». Già. Il guaio è che la stragrande maggioranza dei figli ha il deplorevole vizio di avere bisogno di entrambi i genitori a tempo pieno, come si usava una volta. E, se è vero che qualche volta la vita familiare si trasforma anche per loro in un inferno, quando il padre e la madre passano il tempo a litigare, il sogno di tanti bambini e ragazzi non è certo che uno dei due se ne vada, ma che essi recuperino  i motivi per cui si erano sposati.

Per evitare loro la fatica di questo impegno, arriva a fagiolo la nuova legge, che annulla sul nascere perfino la voglia di provarci, consentendo in soli sei mesi di azzerare una storia che – almeno per gli interessati –   era stata d’amore. E del resto, ormai, siamo abituati dalla nostra società consumistica,  quando qualcosa si rompe, a non  perdere più tempo sforzandoci di aggiustarla, ma a  buttarla via e a sostituirla con un’altra, in base alla logica dell’“usa e getta”.

Qualcuno, che vuole a tutti i costi cercare il pelo nell’uovo, obietterà che qui non si tratta di oggetti, ma di una storia che – almeno secondo gli interessati –  era stata d’amore. Una società che considera un segno di civiltà mettere sullo stesso piano le due cose, introducendo nella vita delle persone la legge del mercato, sembra aver perso di vista ciò che un tempo si intendeva per “matrimonio”, e che ancora è espresso nella formula del rito religioso, in cui ci si promette a vicenda di essere l’un l’altro fedeli per sempre, «nella gioia e nel dolore, in salute e nella malattia».

Certo, si è sempre sottolineato, già quando fu varata la prima legge sul divorzio, che non si obbliga nessuno a ricorrervi. E molti l’hanno sostenuta in base al principio: «Io non lo farei, ma perché impedire, a chi vuole, di divorziare? Sono fatti loro!». A quarant’anni da quella legge, sappiamo che non erano solo fatti di alcuni. Perché, come diceva Aristotele, i legislatori rendono buoni o meno buoni i cittadini creando in loro determinate abitudini.  In realtà le leggi non hanno solo il valore di sanare situazioni individuali, ma creano un costume che, alla fine, coinvolge tutti e non solo per il passato, ma per il futuro. Così è stato per quella del divorzio: ben lungi dal risolvere, come si proclamava allora, alcuni casi pietosi, ha contribuito sicuramente a creare una nuova mentalità, che avvicina il matrimonio alla semplice convivenza e lo rende poco significativo.  Ora, dopo la riforma approvata dalla Camera, più che mai.

Ma il progresso e la civiltà hanno i loro diritti. Salutiamo dunque la nuova legge sul divorzio breve, anzi brevissimo,  come un importante passo avanti verso la completa affermazione, anche a livello dei rapporti personali più intimi,  della cultura del mercato capitalistico. Rispetto a quella arcaica del dono, basata sul principio dell’irreversibilità, in essa la libertà dell’individuo  non è soggetta se non a vincoli temporanei e sempre risolubili. Un nuovo modello di famiglia, che si sta già affermando e di cui vediamo ogni giorno i frutti. No, non erano e non sono soltanto «fatti loro».

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