Senza categoria

Il grido di Giobbe: una recensione al film The Tree of life

Loading

The Tree of life, Terrence Malick (2011)

Vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes, e con tre nomination all’Oscar come miglior film, migliore regia e migliore fotografia, The Tree of life (2011) è un film certamente interessante, che i critici hanno definito visionario, contemplativo, sacrale.

Il lungometraggio ha, di fatto, una struttura narrativa trascendentale.

Il potere immaginifico del titolo contiene già in sé, nella tensione aerea dei rami protesi al cielo, e la discesa subterranea delle radici, la metafora pittorica della parabola dell’esistenza umana.

Da un lato una verticalizzazione ascendente al divino, scandita dalle domande esistenziali sussurrate da voci fuori campo, sublimata dalle musiche sinfoniche e dai movimenti di luci ed ombre nelle scene; dall’altro la storia terrestre, in una narrazione che parte dalle sue fondamenta cosmiche, fino alla consumazione del tempo, fissata in quelle immagini di creature di ogni età che, sul finire del film, si ri-incontrano al confine tra terra e oceano.

Terrence Malick compone un’opera filosofica e religiosa di grande impatto emotivo, che mescola con grazia poetica e con una non semplice concettualità narratoria, i temi della caducità e dell’eternità, del particolare e dell’universale, della contrapposizione tra Grazia e Natura, in un rimando continuo di visioni macrocosmiche e microcosmiche in dialogo tra loro.

Si alternano così nel film scene intimistiche e familiari, e frammentarie visioni di genesi e cosmogonia.

Il regista, per il tramite di immagini e suoni altamente lirici, che fluttuano diacronicamente tra passato e futuro, offre allo spettatore una riflessione ontologica sull’esistenza umana a partire dalle quotidiane trame relazionali di una famiglia americana degli anni 50, di cui traccia la storia attraverso momenti fortemente simbolici, fino a quello più fondante e consistente: il lutto.

Sean Penn, nei panni del primogenito, ricorda, attraverso una serie di flashback malinconici e felici, la propria infanzia e adolescenza con i genitori e i fratelli: il rapporto conflittuale col padre (in cui tuttavia in ultimo si identifica), la dolcezza e l’eccessiva ingenuità della madre, forse troppo tollerante verso gli eccessi del marito, e di cui rifiuta l’eccessiva debolezza.

Su uno sfondo urbano e asettico che non è più quello pieno di alberi e terra dell’infanzia, il protagonista si immerge in un doloroso soliloquio intorno alla perdita del fratello, interrogando Dio, Ente Supremo, sui moti della propria coscienza.

Egli è simbolicamente ogni creatura terrestre che porta sulla schiena il fardello delle umane domande sul senso della vita.

Nei loro ruoli di padre e madre i genitori, magistralmente interpretati da Brad Pitt e Jessica Chastain, si fanno simbolo della dicotomia tra durezza e docilità, tra natura e grazia, riflettendo in sé le altre analogie oppositive presenti nel film: vita e morte, accettazione e rivolta, infanzia ed età adulta, inizio e compimento.

Per tutti e tre i personaggi, la morte improvvisa del figlio diciannovenne corrisponde alla crisi, alla caduta, al grido di Giobbe.

La ragione da sola non è capace di dare un senso alla morte innocente. Il dolore si fa lacerante e incalza negli animi la domanda a quel Dio sfuggente e misterioso che da e toglie, si fa invocazione alla misericordia.

Di fatto, l’accettazione della perdita e il superamento del lutto avvengono soltanto quando proprio la madre, portatrice e custode di vita, dopo una strenua lotta interiore, riesce a dire: “ti offro mio figlio”.

Riconosce che vita e morte appartengono al Padre Onnipotente, e si sottomette in quella offerta sacrificale suprema.

Vestita di semplice grazia, nella sua fragilità umana si sottomette poiché:

L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, E quando tutto sarà sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti”. (1 Corinzi 15, 26-28)

The Tree of life è un inno alla vita, allo splendore del creato, alla bellezza.

Apre al dialogo con un Dio che è dovunque, nelle piccole e grandi cose, in quelle magnifiche e in quelle terribili.

Le sequenze sono quadri di grande lirismo, e ogni scena ha una forza poetica viscerale che glorifica il Creatore, la creazione e la creatura, lasciando filtrare una luce, pur attraverso le crepe nelle cose, che in ultimo è vittoria sulla morte, speranza, benevolenza. Eternità.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *