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Il bullo beneducato- Ragionare in classe sulla violenza sommersa

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di Isabella Tondo 

 

Si è ormai talmente avvezzi all’aggressività verbale e fisica, per strada, nei locali, in tv o nei siti web che non è facile oggi, per un adolescente, difendersi dalla prepotenza verbale, fisica e visiva del più forte, del più bello, del più ricco, del vincente.

Ciò che appare talora difficile, da parte di molti ragazzi, è riuscire addirittura a riconoscere alcuni atti come violenti e, in secondo luogo, arrivare a denunciarli.

Accade infatti che gli spazi relazionali adolescenziali, sempre più contigui a quelli degli adulti (si pensi ai social network, ad esempio, in cui il cerchio degli ‘amici’ include persone di età molto diverse tra loro), vengano sempre più contaminati da stili comunicativi aggressivi così diffusi da apparire ‘normali’, che poco tempo (o nulla) lasciano alla pausa, all’ascolto, alla comprensione dell’altro. In tali contesti può capitare di plaudire in massa all’insulto o allo schiaffo ad un coetaneo senza chiedersi poi il perché della personale adesione a tali gesti, senza fermarsi poi a valutare le eventuali conseguenze di quell’insulto o di quello schiaffo.

Così non è insolito che i docenti si trovino tra le mani richieste di aiuto da parte di genitori preoccupati per il proprio figlio, divenuto bersaglio di insulti o scherzi da parte dei compagni sia in classe che sul web o sul nuovissimo e ancor più veloce spazio di whatsapp. Può succedere che siano spesso gli stessi docenti ad accorgersi di particolari condizioni di solitudine e mancata integrazione di alcuni ragazzi all’interno del gruppo classe.

 

Come far emergere, però, con chiarezza la violenza sommersa ed aiutare gli alunni a riconoscerla? Ancor più difficile è farlo in un contesto apparentemente sereno e perbene, come quello di molte classi dei nostri licei in cui la vivacità può rasentare l’esuberanza e sfociare in un chiacchiericcio disordinato e rumoroso, pronto a ricomporsi al primo richiamo dell’insegnante. A volte proprio questa ‘garbata compostezza’ di superficie può nascondere una violenza sotterranea e divenire, talora, una barriera difficile da penetrare a uno sguardo che voglia andare in profondità quando si sospettano disagi interni. Foto, commenti aggressivi, messaggi derisori scorrono quotidianamente sui telefonini anche dei più beneducati alunni che non poche volte vengono sorpresi come impensabili carnefici in episodi di bullismo, dentro o fuori gli edifici scolastici. 

Lo studente gentile e non aggressivo che partecipa ad episodi di bullismo lo fa per una “riduzione del senso di responsabilità individuale”. Pare infatti che l’85% degli episodi di bullismo avvenga in presenza di coetanei: il bullo ha bisogno di un pubblico perché la sofferenza inflitta si trasformi in un aumento di prestigio per l’aggressore (G. Burgio). E’ la nota dinamica del branco in cui l’azione del singolo perde il suo carattere soggettivo per annullarsi nella pluralità indistinta del ‘noi’ che agisce come un corpo unico.

Ecco allora la necessità del ripristinare i tanti ‘io’ sommersi e aiutare gli studenti a riappropriarsi della propria individualità. Passare così dal ‘noi’ all’ ‘io’ diventa un processo lento e doloroso, l’unico che potrà consentire allo studente violento e agli osservatori complici di avvicinarsi alla dimensione della ‘responsabilità’ della propria azione. Ad aiutare la maturazione di questo passaggio non potrà essere però il discorso ex cathedra da parte del docente, la cosiddetta ‘predica’ su cosa fare e cosa non fare.

L’obiettivo primario da perseguire è divenire consapevoli della violenza insita nei comportamenti, nostri o altrui.

Ecco allora che l’educatore comincia con maggior attenzione a protendere orecchie e ad aguzzare lo sguardo, come un animale in stato di agguato: ora fa rilevare in aula una risata di troppo, ora un tono che ha le sfumature del sarcasmo, ora l’aggressività di certe espressioni ritenute normali perché comuni e ricorrenti nel linguaggio quotidiano, finché non arriva a discernere e a mostrare ai ragazzi che in quella melodiosa armonia di superficie ci sono diverse note fuori dal rigo. Così, nell’arco di un certo periodo di tempo, potrebbe cominciare a comporsi un quadro inatteso finché giunge poi il momento cruciale di ‘tirare fuori’ dagli alunni quello che non riesce ad emergere nella quotidianità scolastica. L’azione è sempre la medesima dell’ e-ducare (etimologicamente connessa al latino e-duco, appunto ‘conduco fuori da’) ovvero quel meraviglioso processo maieutico che il docente riesce a condurre in classe attraverso gli strumenti di cui dispone:  i contenuti disciplinari.

Sarà forse una lettura antologica, ad esempio, a divenire materiale utile per veicolare spunti di riflessione sulla violenza e sulle dinamiche di gestione o di reazione ad essa. Sarà un episodio scelto dell’Iliade, il poema della forza secondo Simon Weil, ad offrire un percorso prezioso proprio sul potere disumanizzante della violenza, oppure ancora uno stralcio da Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini, in cui il protagonista assiste senza intervenire alla violenza perpetrata da alcuni ragazzi sul proprio amico o, ancora, i versi della Divina Commedia in cui Dante tratta, in più punti, del libero arbitrio e dell’umana responsabilità dell’azione, e così via. Infine le molteplici vicende storiche che dalla cronaca quotidiana alla storia antica possono suggerire spunti sulla prepotenza e la prevaricazione così come sul silenzio complice di chi osserva ma tace. 

Proprio da qui partirà una lunga e paziente ricostruzione educativa: demolire via via i miti sociali imperanti, mostrandone la violenza e, nel contempo, l’inconsistenza.

Certo, sul piano del dibattito la classe può reagire con passione, magari accalorandosi a sostenere la causa della vittima che appare in genere meno forte, meno bella, meno magra, meno brillante, meno loquace. Tutto si svolge ancora sul piano discorsivo e la partecipazione del singolo studente si misura con un oggetto che è percepito ancora come ‘esterno’ al proprio vissuto.  Occorre tempo e ascolto.

Il processo educativo è lungo e, com’è noto, può risultare invisibile per anni ma la pazienza di un’azione attenta e mirata può sortire nei ragazzi frutti insperati perché il fallimento e l’errore, lungi dal finire sul voto di condotta, deve poter sempre considerarsi in classe come momento di apprendimento anche per il carnefice. Nel contempo, un lungo processo attende sia la vittima, che si è magari abituata alla propria sofferenza e alla propria marginalizzazione, sia gli studenti osservatori e complici silenti: tutti vanno richiamati alla consapevolezza di una violenza multiforme che cambia via via col tempo ma che mantiene inalterato nel suo seno il meccanismo di prevaricazione del più forte sul più debole (ovvero il conflitto Maggiore> minore).

Lavorare in classe sui meccanismi insidiosi e sommersi della violenza non potrà mai separarsi dall’educazione alla responsabilità, etimologicamente connesso a respondere ovvero al dovere che ciascun uomo ha di “rispondere” ad un altro uomo delle proprie azioni. Un percorso che dovrebbe poter cominciare in famiglia e che, lungi dal configurarsi come ricerca del colpevole, va pensato invece come buona abitudine alla verità, al dominio di sé e al rispetto dell’altro.

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