Se in carcere muore una ragazza di 27 anni
Il suicidio, nel carcere di Montorio (Verona), di Donatella Hodo è solo l’ultimo dei 49 casi di morte volontaria verificatisi in questi primi mesi del 2022. Donatella – di origine albanese, ma fin da bambina residente in Italia – aveva 27 anni. Era già stata più volte arrestata per i piccoli furti che era costretta a commettere per pagarsi la droga, da cui era dipendente. Si è uccisa nella notte del 1 agosto inalando gas da un fornelletto.
Durante le esequie, che si sono tenute nella chiesa parrocchiale di Castel d’Azzano, un’amica della giovane ha letto una lettera inviata dal magistrato di sorveglianza a cui era affidato il compito di seguire Donatella, Vincenzo Semeraro: «Se in carcere», ha scritto il magistrato, «muore una ragazza di 27 anni così come è morta Donatella, significa che tutto il sistema ha fallito».
Qualcuno attribuisce l’alto numero di suicidi di quest’anno all’ondata eccezionale di caldo. Ma le statistiche dicono il contrario: anche l’anno scorso sono stati 55; due anni fa 62, tre anni fa 53, quattro anni fa 67…
Dal 2000 ad oggi, ben 1272! Senza tener conto dei tentativi falliti di togliersi la vita.
Il problema non è nuovo. Già in una circolare del 30 dicembre 1987 la Direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena esprimeva «vivissima preoccupazione per i ricorrenti, gravissimi fenomeni, purtroppo in aumento, degli atti di autolesionismo, in ispecie dei suicidi, posti in essere dai detenuti e dagli internati». Sta di fatto che in Italia dentro il carcere ci si uccide 16 volte in più che “fuori”.
In un’intervista ad «Avvenire» il giudice Semeraro ha evidenziato la base umana del fenomeno, collegata alla vulnerabilità estrema di molti dei reclusi. Quella di Donatella era una vicenda molto comune: «In carcere c’è un’umanità sterminata e le loro storie si assomigliano: sono fragili, fragilissimi, spesso provengono da famiglie altrettanto fragili. Entrano ed escono dal carcere di continuo». Non è un caso che, per la maggior parte, secondo i dati riportati da Antigone, si tratti di giovani tra i 20 e i 30 anni.
Particolarmente drammatica, secondo lui, la condizione delle donne in istituti penali studiati soprattutto in funzione degli uomini e incapaci di tener contro della psicologia femminile. È significativo che dall’inizio dell’anno ben 5 le detenute si sono tolte la vita. Un numero altissimo – ha sottolineato l’associazione Antigone – se si considera che, al 30 giugno 2022, le donne sono pari al 4,2% del totale della popolazione carceraria.
Non è solo fragilità
Ciò non significa che il problema dei suicidi in carcere si possa ridurre – come in passato è stato fatto e ancora spesso si continua a fare – ad una conseguenza di disturbi psichici dei detenuti. Ancora oggi si tende a considerare il detenuto che si suicida o che tenta di farlo come una persona “non normale”, che era già affetta per proprio conto di una patologia psichica. Ne è la conferma il fatto che le misure che vengono adottate nei confronti di colui che ha tentato il suicidio sono rivolte sempre e soltanto alla salute mentale del soggetto: assistenza psichiatrica, isolamento, trasferimento all’ospedale psichiatrico giudiziario.
In realtà, se il fattore umano è sicuramente fondamentale, ce ne sono alcuni di carattere strutturale che riguardano tutti i detenuti, a prescindere dalle condizioni personali. Decisivo è il problema del sovraffollamento.
In Italia ci sono circa 55mila detenuti rispetto ai 47mila posti disponibili. Per non dire che molte strutture, oltre ad essere inadeguate dal punto di vista della capienza, lo sono dal punto di vista delle strutture logistiche.
Ma c’è anche una cronica carenza di organici: il personale addetto è largamente insufficiente, soprattutto quello specializzato, che dovrebbe avere un ruolo decisivo nella cura delle condizioni psicologiche dei detenuti. E dire che il mantenimento in carcere di ogni detenuto costa allo Stato 154 euro al giorno!
Di questi però solo 35 centesimi sono investiti nella rieducazione. Non stupisce che chi espia la pena tutta e solo in carcere torni a delinquere nel 68 per cento dei casi, contro il 19 per cento di chi invece la sconta in parte in misure alternative al carcere. A riprova delle condizioni di estremo disagio della vita all’interno dei
nostri istituti di pena.
E non è solo un problema di soldi. Troppe volte la logica di chi gestisce il carcere è ancora quella burocratica, ansiosa di evitare problemi e rischi, più che di realizzare gli obiettivi umani che la detenzione si propone.
Bisognerebbe che venissero formati diversamente direttori e guardie carcerarie, valorizzando al tempo stesso l’apporto delle associazioni di volontari che con grande generosità offrono i propri servizi, sfidando una rete fittissima di restrizioni e di controlli.
In attesa di una riforma di più ampio respiro, che dovrebbe riguardare la struttura stessa del sistema carcerario, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, incalzato dagli ultimi drammatici eventi, l’8 agosto ha varato delle “Linee guida per le prevenzione dei suicidi”, inviando una circolare ai provveditori e ai direttori di tutti gli istituti italiani. In essa il compito di svolgere in ogni struttura l’analisi delle situazioni a rischio viene attribuita a degli staff multidisciplinari composti da direttore, comandante, educatore, medico e
psicologo.
Senonché, come ha ricordato il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi, David Lazzari, «i presidi sanitari nelle carceri sono sguarniti di professionisti della salute mentale». «Chi c’è – spiega Lazzari, – fa naturalmente del suo meglio, ma spesso né il numero di ore né gli strumenti forniti sono completamente adeguati. In più gli psicologi esperti ex art. 80 hanno un numero di ore così esiguo che non resta tempo per lavorare sul trattamento oltre che sull’osservazione e spesso nemmeno per lavorare in maniera integrata con i colleghi dei servizi sanitari».
La circolare, così, è destinata a rimanere sulla carta, come quella del 1987. Gli anni passano, i governi si succedono, ma i problemi del nostro sistema carcerario non vengono risolti. Recentemente, nel rilevare che «purtroppo, le carceri continuano a generare morte, violenza e sofferenza», Gennarino De Fazio, ispettore capo del corpo di polizia penitenziaria e segretario generale della UILPA – Polizia Penitenziaria ha ancora una volta denunziato l’inefficienza della politica: «L’ex presidente del consiglio dei ministri Mario Draghi, nel suo discorso d’insediamento, si era impegnato a migliorare le condizioni di coloro che operano e vivono nelle carceri. Questo impegno è stato totalmente disatteso e le condizioni di vivibilità dei penitenziari sono ulteriormente peggiorate».
Oltre la cultura dello scarto
È inevitabile una riflessione sul significato che tutto questo assume se confrontato con la finalità del carcere. L’art.27 della nostra Costituzione è molto chiaro: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». In sintonia con quanto dice l’art. 13, secondo cui «è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà».
Pur nella consapevolezza del ruolo dei fattori psicologici individuali e delle libere scelte personali dei detenuti, c’è da chiedersi se un sistema carcerario come il nostro rispecchi oggettivamente le esigenze espresse in questi articoli. Se esso, cioè, sia in grado, così com’è, di esercitare una funzione rieducativa nei confronti di soggetti resi in partenza fragili da situazioni familiari e sociali sfavorevoli che le hanno spinte o comunque favorite sulla via dell’illegalità.
Così pure, è probabile che, senza arrivare alla violenza fisica, ci possano essere, a causa delle disfunzioni del sistema carcerario, situazioni di disagio che costituiscono per il recluso forme di violenza morale. La verità è che mai forse come nel caso dei carcerati siamo prigionieri, a nostra volta, di quella «cultura dello scarto» denunciata più volte da papa Francesco.
È in questa logica che qualche politico, per guadagnare consensi nei sondaggi, continua a ripetere che per la sicurezza dei cittadini bisogna chiudere la porta delle celle e «buttare la chiave». Quando invece proprio i dati appena citati dicono, al contrario, che aprire le porte delle prigioni a misura alternative più umane è il modo migliore di non far ripetere i crimini.
Non siamo ancora riusciti a passare dalla visione difensiva della detenzione come garanzia di sicurezza del cittadino “onesto” a quella per cui essa deve operare per la restituzione del soggetto alla società civile. Questa è la vera sicurezza.
I suicidi nelle nostre prigioni ci interpellano tutti, come cittadini, su questi problemi cruciali. In realtà, non ci si pensa quasi mai. A parte gli stretti familiari, i reclusi sono anche abbandonati. Ma ogni uomo, ogni donna che preferisce morire, piuttosto di vivere nelle nostre prigioni, continuerà ad essere una sfida alla nostra indifferenza.
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