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I Chiaroscuri – Palermo il giorno dopo

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Mentre i vincitori delle elezioni amministrative a Palermo comprensibilmente esultano, mentre gli sconfitti, altrettanto comprensibilmente, cercano giustificazioni al loro insuccesso, può forse avere un senso chiedersi cosa prova la nostra città. Si potrebbe obiettare che i suoi sentimenti essa li ha espressi, domenica, con il voto. In realtà, però, le statistiche dicono che a votare è andato solo il 52,6 per cento dei palermitani aventi diritto, una percentuale più bassa della media nazionale, che si è attestata al 60,1 per cento, e in generale tra le più basse dei 1.004 Comuni italiani chiamati a rinnovare le amministrazioni.

A prescindere dai confronti, quello che sembra sicuro è che ben 264.526 cittadini hanno scelto di non andare neppure al seggio elettorale, a fronte dei 293.585 che lo hanno fatto. Praticamente, la metà dell’elettorato. A cui va aggiunto il 7% di quelli che sono andati, ma le cui schede sono state nulle o bianche. Insomma, al di là delle feste, al di là delle recriminazioni, è inquietante il dato che un palermitano su due si è chiamato fuori dalle une e dalle altre, sputando in faccia a vincitori e vinti il proprio rifiuto di identificarsi con quel rito fondante della democrazia rappresentativa che sono le elezioni.

Un rifiuto tanto più allarmante se si pensa che, a differenza che per le votazioni a livello nazionale, qui non si può invocare la lontananza fisica e psicologica della gente comune dai problemi che si discutono nei palazzi del potere romano. Qui non si trattava di stabilire la nostra collocazione rispetto all’Unione Europea o le strategie per far crescere il PIL, ma se far transitare il tram da via Libertà, come garantire la pulizia delle strade, in che modo raccordare la vita del centro con quella delle periferie – questioni che riguardano le persone nella loro vita quotidiana e per cui sarebbe stato lecito aspettarsi un certo interesse. Come è possibile che non ci sia stato?

Gli sconfitti gettano la responsabilità su Leoluca Orlando, sindaco uscente e indiscusso trionfatore di questa tornata elettorale, accusato di non avere saputo dare una vera vitalità democratica alla città, gestendola in modo verticistico. Francamente ci sembra una risposta inadeguata. È difficile negare che in Orlando alcune doti altamente appezzabili – come la sua personalità carismatica e la sua non comune (almeno tra i politici) dimensione culturale – abbiano come contraltare una spiccata tendenza all’autoreferenzialità, che, fin dai tempi della Rete, gli ha sempre reso difficile collaborare veramente alla pari, lasciando spazio ad altre figure. Ma attribuirgli tutta la colpa del mancato sviluppo della coscienza democratica e partecipativa dei palermitani mi sembra sulla linea di quel culto della personalità che i suoi critici vorrebbero smontare. Se anche fosse un demonio (e Orlando non lo è!), un uomo solo non sarebbe in grado di fare un simile danno.

Qui si tratta di problemi strutturali, alcuni dei quali non riguardano tra l’altro solo la nostra città – non a caso anche nelle altre si è registrato, in queste elezioni, un astensionismo di ben sette punti superiore a quello del 2012 –, anche se in essa si trovano probabilmente in forme più estreme, e della cui mancata soluzione, comunque, dovremmo assumerci tutti la responsabilità: maggioranza, opposizione, intellettuali, imprenditori, funzionari, impiegati…

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Senza dire che gli slogan trionfalistici innervosiscono anche il cittadino coscienzioso e votante, che continua a doversi appellare ad accurate ricerche archeologiche per attestare l’esistenza delle strisce pedonali (rischiando la pelle se l’automobilista di turno non ha familiarità con l’archeologia), o a dover constatare l’incapacità del Comune di controllare il territorio, impedendo l’accumularsi della spazzatura agli angoli delle strade. E sono solo degli esempi.

Detto ciò, escludo che dobbiamo aspettarci dal nuovo/vecchio sindaco dei miracoli. Non è santa Rosalia (anche se lui stesso, a volte, lo ha lasciato credere). All’indomani di queste elezioni, se vogliamo recuperare quelli che non si sentono neppure più di protestare e vogliamo evitare che la loro schiera si ingrossi, dobbiamo tutti riconoscere le nostre responsabilità e chiederci che cosa possiamo fare di più e di diverso dal passato per cambiare Palermo (davvero).

La prima mossa mi sembra dovrebbe essere quella di cooperare. E cooperazione non significa fare ognuno del proprio meglio, ma cercare di farlo insieme, unendo le forze e valorizzando ciò che di buono anche gli altri, diversi da noi, sanno fare. Un segnale simbolico importante potrebbe venire dallo stesso Orlando, se avesse il coraggio di coinvolgere in un “pensatoio”, spazio di confronto e di ideazione (le decisioni, è chiaro, toccano alla nuova giunta e al nuovo consiglio comunale), gli altri candidati, anche quelli che non sono entrati in consiglio, superando – e questo non lo può fare solo Orlando – le reciproche amarezze accumulate in campagna elettorale.

Più in generale, il problema di questa amministrazione non è di fare per altri cinque anni quello che si è fatto finora – buono a cattivo che sia –, ma di farlo in modo diverso, cambiando lo stile di fondo e trasformandolo da dirigistico in partecipativo. A questo tutti possiamo e dobbiamo lavorare. A meno che non si riduca – da parte di vincitori e di vinti – la vita pubblica di Palermo, nei prossimi mesi, a una campagna elettorale in vista delle elezioni regionali di autunno. Ma se ciò accadesse, allora bisogna aspettarsi che alle prossime votazioni per il Comune vadano a votare solo candidati e i loro parenti stretti.

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