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I Chiaroscuri – Il vero problema dell’UNAR

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Sono ben pochi gli italiani che avevano sentito parlare dell’UNAR, prima che le Iene, in una loro trasmissione, denunciassero il suo direttore per aver assegnato dei  finanziamenti a un club gay – di cui peraltro era socio – , dove si svolgevano orge e vari forme di prostituzione maschile. È stato questo scandalo a scatenare l’indignazione dei mezzi di comunicazione, dell’opinione pubblica e della classe politica. Ennesimo esempio di come, nel nostro Paese, i polveroni servano a nascondere più che a evidenziare i veri problemi.

Perché  la storia è un po’ più lunga e complessa, e vale la pena di raccontarla. L’Ufficio in questione è stato istituito nel luglio 2003, dipende dalla presidenza del Consiglio dei ministri e, in particolare, dal dipartimento delle Pari Opportunità, e il suo compito istituzionale, espresso nella denominazione – UNAR sta per “Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali” -, era quello di  «contribuire a rimuovere le discriminazioni fondate sulla razza e l’origine etnica analizzando il diverso impatto che le stesse hanno sul genere e il loro rapporto con le altre forme di razzismo di carattere culturale e religioso». Iniziativa più che opportuna, in un contesto storico in cui nel nostro Paese l’opinione pubblica appariva già (ed è ancora di più oggi) suggestionata da una martellante propaganda che cerca di far credere che i migranti siano un insostenibile fardello per la nostra economia o addirittura una  incombente minaccia per la nostra sicurezza.

Può sorprendere, perciò, che il frutto più evidente e significativo  del lavoro del nuovo Ufficio, sia stato, nel 2013  – su mandato del ministro Fornero, a cui era allora conferita la delega per le Pari Opportunità – , il documento «Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere», che con quelle razziali ed etniche  hanno un rapporto, ma relativamente marginale.

Ancora più sorprendente, però, la tesi centrale del documento – stipulato con il «ruolo attivo e propositivo» (p.5) di 29 associazioni LGBT (Lesbiche, gay, bisessuali e transessuali) – , secondo cui «dietro gli episodi di bullismo omofobico e transfobico vi sono altri problemi, quali quelli legati a una cultura che prevede soltanto una visione eteronormativa» (p.16).  In altri termini, la discriminazione nei confronti di omosessuali e transessuali avrebbe la sua radice nell’idea fino ad oggi diffusa che la relazione sessuale si realizzi normalmente tra uomini e donne. Secondo il documento, dunque, è su questo che bisogna lavorare, a livello educativo, fin dalla più tenera età.

Compito urgentissimo, perché –  denuncia il documento – «le tematiche LGBT trovano spazi marginali nelle aule scolastiche, o sono relegate a momenti extra curriculari» (p.16).  Per rimediare a questo grave deficit (gli altri la scuola, come tutti sanno, li ha ormai colmati…) il documento dell’UNAR proponeva di organizzare appositi corsi di formazione, con la «valorizzazione dell’expertise delle associazioni LGBT» (p.18). Anche i programmi si dovranno cambiare, «con un particolare focus sui temi LGBT» (p.18).

Per preparare i docenti ad attuare questo progetto, già in se stesso vistosamente unidirezionale, l’UNAR ha commissionato all’Istituto di Psicologia cognitivo-comportamentale A. T. Beck tre opuscoli che, con l’unico titolo Educare alla diversità nella scuola, sono stati editi per distribuirli a tappeto negli istituti di ogni ordine e grado –  uno per la primaria, uno per la secondaria inferiore, uno per la secondaria superiore.

In essi, ovviamente, il bersaglio critico è la «visione eteronormativa» della sessualità: «Nella società occidentale», si denuncia (citiamo dalla parte generale, comune ai tre),  «si dà per scontato che l’orientamento sessuale sia eterosessuale.  La famiglia, la scuola, le principali istituzioni della società, gli amici si aspettano, incoraggiano e facilitano in mille modi, diretti e indiretti, un orientamento eterosessuale.  A un bambino è chiaro da subito che, se è maschio, dovrà innamorarsi di una principessa e, se è femmina, di un principe. Non gli sono permesse fiabe con identificazioni diverse» (p.3).

Ora, la scuola, per superare il bullismo omofobo e le altre discriminazioni basate sul sesso, deve operare per rimuovere questo stereotipo. Perciò si raccomanda agli insegnanti, fin dalla scuola primaria,  di «non assegnare attività diverse a seconda del sesso biologico»; di «non usare analogie che facciano riferimento a una prospettiva eteronormativa»; di spiegare chiaramente che ai bambini/ragazzi/adolescenti che «i rapporti sessuali omosessuali sono naturali», e, a chi ne dubita, «ribaltare la domanda chiedendoci: “i rapporti sessuali eterosessuali sono naturali?”»(p.23).

E poiché lo sforzo educativo della scuola non può prescindere dal modo di concepire la famiglia, gli insegnanti dovranno, «nell’elaborazione di compiti, inventare situazioni che facciano riferimento a una varietà di strutture familiari ed espressioni di genere. Per esempio: “Rosa e i suoi papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar. Se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”» (p.6).

In realtà la distribuzione degli opuscoli è stata bloccata nell’aprile del 2014 dal ministro della Pubblica Istruzione Giannini – che non ne era stato informato (nasce spontanea la domanda: avrebbe fatto lo stesso il nuovo ministro Fedeli, da sempre sostenitrice convinta dell’educazione di genere?) -, suscitando le proteste delle associazioni LGBT che avevano collaborato al progetto. Ma questo non ha affatto messo in discussione l’appoggio incondizionato del governo all’UNAR, che nell’ultimo bando è stato in condizione di distribuire quasi un milione di euro.

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Questa storia impone alcune considerazioni. La prima, di ordine puramente logico, è che la giustissima esigenza di educare a  rispettare le diversità non coincide, come sembrano pensare l’UNAR e sulla sua scia i libretti dell’Istituto Beck, con la rinunzia alla propria identità culturale ed etica, nel nostro caso a una visione eteronormativa radicata (come i libretti stessi riconoscono) nella nostra tradizione. L’omofobia non consiste nell’avere una concezione che privilegia l’eterosessualità, ma nell’emarginare e  perseguitare gli omosessuali. Altrimenti  per  educare al superamento dell’islamofobia (che pure è un pericolo per i nostri ragazzi) la scuola dovrebbe inculcare fin da bambini l’accettazione incondizionata  degli stili di vita islamici, inclusi quelli che riguardano le donne, sradicando negli studenti la convinzione che i nostri siano più validi.

La seconda considerazione è che un’educazione di massa che pretenda di eliminare lo stereotipo  eterosessuale ne indurrebbe, comunque, un altro, basato sulla relativizzazione della identità sessuale biologica, altrettanto pervasivo del precedente, che – nel bene o nel male (qui prescindiamo da valutazioni di merito)  – innegabilmente rivoluzionerebbe le basi culturali ed etiche della nostra società.

La terza considerazione è che l’UNAR ha cercato di operare questa rivoluzione promuovendo un’azione capillare dal vertice della struttura burocratica (la presidenza del Consiglio), senza sentire il bisogno di aprire un dibattito che coinvolgesse, alla base, l’opinione pubblica, le famiglie (il Forum delle associazioni famigliari si è lamentato di non essere stato mai consultato), gli educatori. Insomma, un colpo di mano contrastante con le più elementari regole della democrazia.

Non sappiamo se davvero quest’Ufficio sia responsabile penalmente degli illeciti che gli vengono attribuiti. Ma quello che ha fatto finora è molto più grave di qualunque forma di corruzione e costituisce da solo un serio motivo per rivederne la prassi, magari riportandola alla coerenza con le sue originarie finalità, ancora presenti solo nel nome.

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