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Don Gioacchino D’Agostino – S. Giuseppe Cottolengo

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Intervista a don Gioacchino D’Agostino

Parrocchia San Giuseppe Cottolengo

18 Aprile 2013

 

La parrocchia San Giuseppe Cottolengo esprime un gran senso di accoglienza che si manifesta sia nella scelta di apertura verso chi non appartiene alla zona parrocchiale, sia nell’attenzione verso chi ha esigenze specifiche, come la possibilità offerta di partecipare alla celebrazione eucaristica animata da chi conosce la lingua italiana dei gesti.

Come dice don Gioacchino non è con i cavilli burocratici che la Chiesa può avvicinarsi alla gente, ma creando occasioni di incontro e ascoltando le richieste che vengono espresse dagli stessi parrocchiani. Da qui la scelta di esprimere in un’assemblea le esigenze della parrocchia, in cui la collaborazione tra laici e parroco è ritenuta un elemento indispensabile.    

 

 

Quanto è grande la parrocchia?

L’annuario riporta 10.000 abitanti; direi, quindi, che è molto grande.

 

Qual è il rapporto tra il numero dei parrocchiani e quello di coloro che frequentano la messa domenicale con una certa costanza?

Nella media nazionale, siamo sul 15% – 20%.

 

È prevalente il radicamento territoriale o vi sono persone che vengono da zone territoriali diverse?

Ci sono molte persone che vengono da altre zone, in parte per il catechismo. Nel nostro territorio parrocchiale ci sono le suore del Sacro Cuore che si occupano di una  scuola materna ed elementare. Alcune famiglie conoscono la parrocchia grazie alle suore e poi preferiscono portare i bambini qui, anche se abitano altrove.

Oltre le richieste per la catechesi dei fanciulli da parte di persone che vengono da altre zone territoriali, anche molti operatori pastorali non sono del territorio parrocchiale. Questa è anche una parrocchia di elezione: le persone cominciano a frequentare e poi un po’ per il catechismo, un po’ per altri motivi, non se ne vanno più e cominciano ad impegnarsi nella parrocchia. Ogni tanto, infatti, ci si scherza e mi si chiede: “ma se muoio il funerale lo facciamo in questa parrocchia?” . Ci si scherza un po’ su.

 

Nel territorio parrocchiale, come cercate di raggiungere i non praticanti o non credenti?

E’ la battaglia di questi tempi.

Alcune persone vengono di loro volontà, altri perché costretti dai corsi di catechesi, di cresima o pre-matrimoniali.

Io dico sempre che è una carta che si giocano loro e una carta che ci giochiamo noi, nel senso che è un’occasione per trasformare il tempo obbligato per fare un corso in un tempo di grazia, in cui ci si può riavvicinare. Spesso funziona, perché molti vivono con entusiasmo i corsi.

Abbiamo realizzato in parte quest’anno delle missioni popolari e abbiamo istituito dieci centri di ascolto. Si tratta solo di un segno, perché dieci centri di ascolto per 10.000 abitanti non sono niente. C’era da considerare anche il numero di operatori pastorali che dovevamo mandare, circa una ventina di persone, che non sono poche.

Poi, ripeto, io dico sempre che ci giochiamo molto sull’accoglienza. Le persone possono passare anche solo per chiedere un documento e anche questa è un’occasione per fare qualcosa di buono. Anche gli incontri con i genitori dei bambini del catechismo è una occasione per conoscersi meglio; ci sono persone che non vivono più un’esperienza ecclesiale o che vivono una situazione di difficoltà, perché separati o divorziati. L’incontro in occasione del catechismo diventa un momento in cui possono trovare un sacerdote con cui confrontarsi.

Da qualche anno stiamo mettendo su una realtà particolare che è il circolo sportivo. Abbiamo ristrutturato il campo sportivo che c’è all’angolo con via Principe di Palagonia.  L’obiettivo era quello di creare un luogo sano, dove le attività sportive potessero fungere anche da collante con il territorio, con le famiglie e anche con i bambini e i ragazzi che vanno a giocare lì. Il circolo sportivo non è soltanto un campo sportivo: abbiamo messo su una serie di iniziative e questo ci consente di coinvolgere le persone che sono più ai margini della vita parrocchiale, ma che magari sono attratti. Dal corso di ginnastica dolce per la terza età o dall’accompagnamento dei bambini a fare sport con la scuola calcio, si comincia a creare un legame ed è la maniera con cui ci giochiamo il contatto con l’esterno.

 

Ci sono attività di formazione che vanno al di là del catechismo per i bambini e i ragazzini fino alla cresima? I catechisti per la preparazione alla prima comunione e alla cresima vengono preparati, a loro volta? Come? Da chi?

Oltre il catechismo per i fanciulli, il corso prematrimoniale e i corsi di cresima abbiamo altre realtà. Quest’anno abbiamo organizzato degli incontri, secondo una richiesta che era sorta dalla comunità. L’anno scorso ho chiesto di fare una assemblea parrocchiale dove la gente potesse dire cosa si aspettava di trovare nella chiesa; si è trattata di una richiesta un po’ folle, perchè di questi tempi poteva spuntare di tutto.

In questa occasione mi sono reso conto che la maggioranza delle persone chiedeva una riscoperta dei contenuti della fede. Mi è sembrato significativo che questo sia emerso poco prima dell’anno della fede. Così quest’anno abbiamo organizzato degli incontri volti ad affrontare il tema della riscoperta della nostra fede. Ho chiesto ai gesuiti del Centro Arrupe, qui vicino, di tenere questi incontri, in modo da poter far riscoprire la fede non solo come qualcosa che li vincola ad una parrocchia, ma come qualcosa che li possa spronare anche nei confronti della città. Al fine di agevolare la partecipazione di chi lavora questi incontri si svolgono alle ore 21.00: lo sforzo è proprio di riuscire a mettere queste attività in orari che consentano a chi è impegnato durante la giornata di potere avere uno spazio per curare la propria fede.

Un’altra realtà che abbiamo in parrocchia è quella dei fratelli sordomuti. In via delle Alpi c’è l’Istituto nazionale dei sordomuti e il sabato pomeriggio si riuniscono qui per la preparazione alla celebrazione eucaristica e poi partecipano alla messa animata dagli interpreti che interagiscono con loro durante la celebrazione, proclamando la parola di Dio in segni. Abbiamo anche organizzato una scuola per imparare la lingua italiana dei segni, che – anche se non è un corso per assistenti della comunicazione –  permette di imparare l’abc della lingua italiana dei segni  e, al tempo stesso, i segni religiosi che possono essere utili. In questo modo potremo garantire il cambio delle persone che fanno da interprete. Poi abbiamo in parrocchia la presenza della pastorale familiare, che si incontra una volta al mese con degli incontri generalmente a sfondo biblico. Poi abbiamo la Caritas, la pastorale della salute e, infine, ci sono gli incontri per i ministranti. La parrocchia ospita anche il corso di teologia di base. Anche la pastorale scolastica organizza degli incontri per insegnanti e genitori. I catechisti fanno degli incontri periodici e partecipano agli incontri di formazione aperti a tutti, perché ci si forma tutti insieme, ognuno riceve lo stesso tipo di formazione; poi, in base al ministero che ciascuno esercita, lo traduce lì dove è stato posto.

 

Qual è la percentuale di ragazzi che continua a frequentare la parrocchia dopo la cresima? C’è un gruppo giovanile permanente? Che età hanno i partecipanti in media?

Dopo la cresima abbiamo il gruppo dei pre-adolescenti, degli adolescenti e dei giovani. Però la percentuale è molto più bassa rispetto al catechismo: se alla comunione posso avere  150 bambini, alla cresima  ne avrò 40 e dopo la cresima diminuiscono ulteriormente. Il gruppo degli adolescenti è davvero poco numeroso, i pre adolescenti ancora resistono.  Il gruppo dei giovani è stato un grande motivo di tribolazione, perché i giovani di oggi hanno tutto ed è difficile vederli interessati.

Quest’anno abbiamo avuto la grazia di riuscire a raggiungere anche dei giovani che transitavano meno in parrocchia. I ragazzi arrivano, mettono in discussione tutto, buttano tutto per aria, ma a quel punto c’è il momento del confronto e del dialogo. Negli incontri non si fa un percorso solo partendo sul testo biblico, si comincia dal confronto che può nascere su diversi fronti; sono interessati alla lectio.

 Spesso partiamo anche dai film che hanno visto o che io propongo per poi approfondire il tema e cominciare un confronto. Sono incontri dinamici. I ragazzi sono abituati a sentire tante cose, anche sulla Chiesa, ma spesso manca un luogo in cui confrontarsi e potere discutere di ciò che sta stretto anche alla Chiesa o far notare che spesso le cose non sono così come vengono dette.

E’ importante perché permette loro di confrontarsi con i loro compagni che sono universitari o del mondo del lavoro, perché in questo gruppo giovanile l’età va dai 17 ai 30 anni. I ragazzi, inoltre, partecipano anche ad esperienze di fede vissuta, con attività di volontariato presso case famiglia.

 

Quali sono i rapporti tra la parrocchia e le associazioni, i gruppi e i movimenti (Azione cattolica, Scout, etc.) – se ce ne sono – che operano al suo interno?

Questa parrocchia è priva di gruppi, movimenti e associazioni. Ho trovato questa dimensione quando sono arrivato:  una parrocchia che prevede diversi settori, che cura la formazione dalla nascita fino alla terza età, ma non con gruppi e associazioni. Ci sono tanti momenti di formazione comunitaria parrocchiale.

 

Che ruolo hanno i laici?

I laici fanno tutto nella vita parrocchiale, se togliamo loro mi posso sbattere la testa al muro!

Ho trovato una realtà parrocchiale che è in grado di portare avanti le proprie attività e che pretende, come è giusto, che in ogni azione il parroco sia presente, nel senso che sia coinvolto soprattutto per l’ambito formativo e per la spiritualità. Però, anche se sono presente, so che i gruppi sono comunque autonomi: su 4 incontri in un mese, per esempio nel gruppo della terza età, vado una volta al mese, ma gli altri 3 incontri li fanno loro;  i catechisti si incontrano e io ci sono, ma altre volte si organizzano loro. So che c’è un responsabile dei catechisti e che non si ferma il mondo se non ci sono.

A me spetta l’arduo compito di coordinare e di pensare a tutti.

 

Quali sono i tratti essenziali  della esperienza di fede che vi caratterizza (o che è presente in parrocchia)? Vi riconoscete in una spiritualità particolare?

Io partecipo ad un gruppo di rinnovamento che è sorto 10 anni fa in un’altra sede, quando ero nell’altra parrocchia. In questa parrocchia, però, non c’è il gruppo di rinnovamento. Io non mi identifico in un gruppo specifico. Quando la parrocchia sentirà di aprirsi al gruppo di rinnovamento è un passaggio che avverrà naturalmente, certo non può essere imposto dal parroco solo perché lo condivide in altri ambienti.

So che alcune persone frequentano gruppi catececumenali, ma non è una richiesta generale forte e consistente della comunità che rende necessario alla parrocchia di aprirsi a queste realtà. Significherebbe stravolgere il volto della parrocchia e assumerne uno nuovo.

Poiché la parrocchia è dedicata a San Giuseppe Cottolengo abbiamo cercato in questi anni di tessere un rapporto con la Piccola Casa della Divina Provvidenza che ha un’apertura verso il mondo della disabilità e della povertà.

Io credo che, nel titolo della parrocchia, non ci sia una vocazione specifica, ma vi qualche elemento di caratterizzazione: sembrerà strano, ma se ci si riflette, questa è una parrocchia che svolge un’attività a livello caritativo e che ha i disabili inseriti nelle attività pastorali e che riecheggia la spiritualità di San Giuseppe Cottolengo. Ma sono note essenziali, non possiamo dire che ci sia una corrente spirituale specifica.

 

Qual è il gruppo o il cammino spirituale che ritenete più vicino a quello che perseguite?

Non seguendo una spiritualità specifica, non c’è un gruppo e un cammino più vicino rispetto ad altri.  

 

Qual è l’iniziativa che vorreste realizzare insieme ad altri gruppi e\o parrocchie?

In passato, circa 2 anni fa, quando abbiamo celebrato il cinquantesimo anniversario di  fondazione della parrocchia e abbiamo organizzato diverse iniziative di conferenze e di incontri abbiamo fatto tanti inviti e le sollecitazioni sono arrivate anche a Santa Luisa, a Sant’Ernesto e a San Francesco di Sales per condividere questo momento. La parrocchia ospita il percorso di formazione per i ministri straordinari di tutto il vicariato e la scuola teologica di base per la zona pastorale.

 

Cosa ritenete urgente per risolvere o affrontare i problemi, se ce ne sono, della città di Palermo?

I problemi della città sono i problemi che esistono anche a livello nazionale.  I tempi sono diventati difficili per tutti, le persone sono disperate, i disoccupati sono aumentati, con l’aggravante di sentirsi mortificati. Molti non chiedono e vivono situazioni aberranti e a volte si isolano, trovandosi nella disperazione.

Poi ci sono quelli che io chiamo gli esperti della carità, che vengono e  sbattono i pugni, minacciano. La gente non ha più rispetto, neanche per il luogo di culto. Ho dovuto richiamare la gente che scrive parolacce nelle panche; c’è una difficoltà educativa del rispetto nei confronti del bene comune. Se da una parte la gente chiede i contenuti della fede, dall’altra parte ci sono queste situazioni che richiedono una ulteriore attenzione. Riuscire a fare fronte a tutto questo non è facile: fino all’altro giorno ho ricevuto le persone della caritas che erano abbastanza avvilite, perché le esigenze sono crescenti e, a volte, si è costretti a dire dei no. Quando è così, si deve fare i conti con le reazioni delle persone e non sempre è facile.

C’è chi viene per chiedere un documento e neanche saluta, si ferma  davanti le scale e urla che vorrebbe un documento. Né accetta un diniego quando, per rispetto della legge sulla privacy, abbiamo bisogno almeno di una delega.

Riuscire ad arrivare alla gente in questo spaccato umano diventa una scommessa.

 

 Cosa ritenete urgente per risolvere o affrontare i problemi, se ce ne sono, della chiesa di Palermo?

Io penso che il problema diffuso nelle parrocchie è lo stesso problema della Chiesa.

Come riporta la Gaudium et spes, le gioie e le speranze e le tribolazioni del mondo sono le stesse della Chiesa.

Viviamo in una società dove ognuno risolve i propri problemi  pensando solo a se stesso. Penso che lo stesso problema ormai si stia strutturando, per certi aspetti, anche a livello parrocchiale.

Faccio un esempio: ognuno pensa solo alla sua realtà o ognuno prende la libertà di decidere della morale dei sacramenti a secondo di una  sensibilità o spiritualità particolare. La gente gira da una parrocchia ad un’altra, alla fine è confusa e si chiede come stiano veramente le cose, perché da una parte si dice in un modo e in un’altra si dice diversamente.

C’è bisogno di una maggiore comunione, che significa anche attenersi tutti a determinate disposizioni. Se le cose devono essere cambiate bisogna che siano cambiate in una maniera collegiale; ci si incontra e si stabiliscono delle regole comuni, ma non che in una parrocchia rispetto ad un’altra si debba respirare un’aria completamente diversa.

La parrocchia come ambito territoriale può esser un limite che si acuisce nel momento in cui cominciamo a fare i conti con gli aspetti burocratici: devo sposarmi ed è difficile fare il processino con un parroco che non conosco, quando si frequenta un’altra parrocchia. La gente si chiede perché lo deve fare. Qui entra in gioco l’appartenenza territoriale. Si possono stabilire regole e mettersi d’accordo. Il rischio è che la Chiesa non sia accogliente. Se una famiglia mi chiede il nulla osta per frequentare il catechismo in un’altra parrocchia io non mi oppongo:  penso che se questa famiglia in occasione della prima comunione si vuole avvicinare e preferisce farlo in un’altra parrocchia va bene, non lo ostacolo. Magari  è la prima volta che viene in Chiesa dopo anni e la prima immagine che ha è il parroco gli sbatte la porta in faccia dicendo o qui o niente. Anche questo è il senso dell’accoglienza. Poi nel momento in cui qualcuno viene si può anche convincere che questa è la sua parrocchia e magari non  la conosce e spiegare come è organizzato in parrocchia il catechismo. Non è con il cavillo burocratico che oggi si può accogliere.

 

Secondo lei,  cosa si intende con la parola cultura?

La cultura è fondamentalmente tutto quello che si vive, la ricerca, la preparazione, ma non soltanto la conoscenza. Non basta la conoscenza: la cultura è ciò che determina anche le abitudini, il modo in cui si vive e si condividono le esperienze con gli altri.  Non può essere delegato, a mio avviso, solo all’ambito conoscitivo come generalmente viene fatto. Non si tratta solo di fare conferenze particolari su argomenti specifici di una certa elevatura a cui partecipano poche persone. Si fa cultura nel senso di creare una dimensione relazionale di comunione, di cammino condiviso. Allora il lavoro da fare è in un altra direzione. Una cosa è che ci sono conferenze ogni mese su argomenti stratosferici dal punto di vista culturale, anche di questo c’è bisogno. Ma la persona comune che si pone tante domande vuole delle risposte; l’incontro non deve essere solo per persone che hanno fatto studi specifici sull’argomento.  Sono importanti gli scambi, come gli incontri tra genitori e insegnanti che si incontrano spinti dalla necessità educativa: sono due prospettive diametralmente diverse della stessa cultura e si riuniscono, perchè si rendono conto che hanno bisogno di altro.

Fare cultura è anche formare gli altri, trasmettere uno stile di vita, dei contenuti essenziali. E’ difficile trovare nelle parrocchie la pastorale della cultura. Spesso la cultura è vista in maniera distorta e non riesce ad incidere nella società, perché si è trattato di argomenti specifici per gli addetti ai lavori. Non è sempre così, ma penso che di tanto in tanto questo errore sia stato fatto.

 

Intervista a cura di Luciana De Grazia

 

 

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