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Dante parla ancora – La giustizia e la complessità delle realtà ultime (Paradiso XIX-XX)

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I canti della Giustizia

Nelle nostre classi il Paradiso gode di scarsa fortuna. E dove qualche traccia della cantica sopravvive, la scelta ricade su canti meritatamente celebri, quali il canto di Piccarda (III), di Giustiniano (VI) o di Cacciaguida (XV-XVII).

Così si è fatto, grosso modo, in questa rubrica. Però forse il Paradiso meriterebbe maggiore attenzione, e forse un tantino di buona volontà in più nel tentare di scrutarne le sopravvivenze. Secondo questa logica, azzarderò qui una lettura laicissima dei canti XIX-XX, scarsamente frequentati ma attraversati da una problematica che, mutatis mutandis, può risultare eloquente al lettore moderno.

Dante e Beatrice stanno nel sesto cielo, chiamato cielo di Giove, che raduna gli spiriti giusti. Il tema quindi è quello della giustizia. Le anime fanno un unico corpo come voce collettiva che prende forma di un’aquila.
Nell’immaginario dantesco (vedi canto VI) sappiamo che l’aquila è simbolo dell’Istituzione.
Per Dante è indissolubile il legame tra Impero, Chiesa e Giustizia. E il regno ultraterreno è il luogo che egli percorre al fine di comprendere le ragioni dell’ingiustizia di questo mondo, di cui egli per primo fa, mentre scrive, dolorosa esperienza.

Il dubbio di Dante: chi si salva?

Nel canto XIX l’Aquila interpreta un antico e angoscioso dubbio di Dante:

Un uom nasce a la riva
de l’Indo, e quivi non è chi ragioni
di Cristo né chi legga né chi scriva;

e tutti suoi voleri e atti buoni
sono, quanto ragione umana vede,
sanza peccato in vita o in sermoni.

Muore non battezzato e sanza fede:
ov’ è questa giustizia che ‘l condanna?
ov’ è la colpa sua, se ei non crede?

In sintesi: un uomo nasce in India dove non c’è alcuna conoscenza di Cristo. A giudizio della ragione la sua morale è irreprensibile. È un uomo senza peccato. Muore ovviamente non battezzato e senza fede. Ma che giustizia è quella che lo condanna?

Questo genere di dubbi oggi non esistono più. Non è lì la loro attualità. L’attualità sta nell’elogio del limite espresso dall’aquila: «Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna,/per giudicar di lungi mille miglia/con la veduta corta d’una spanna».
È una risposta dura. Chi sei tu che hai la vista lunga un palmo e che vuoi sederti sul seggio del giudice?

Sembrerebbe un incoraggiamento a fare abdicare la ragione in favore dell’ imperscrutabilità del giudizio divino. Alighieri è attento a non sovvertire la dottrina della salvezza che si ottiene in virtù del battesimo e della fede.

Paradossi della verità

Tuttavia al v. 106 c’è un colossale “Ma” pronunciato dall’aquila:

Ma vedi: molti gridan “Cristo, Cristo!”,
che saranno in giudicio assai men
prope
a lui, che tal che non conosce Cristo;

e tai Cristian dannerà l’Etïòpe,
quando si partiranno i due collegi,
l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe.

Che poran dir li Perse a’ vostri regi,
come vedranno quel volume aperto
nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?

In sintesi: molti si riempiono la bocca di Cristo ma al momento del giudizio saranno molto meno vicini a lui di chi non lo conosce; e sarà l’Etiope a condannare i cristiani al momento della verità.
Cosa potranno dire i Persiani ai vostri re quando vedranno la rivelazione di tutte le nefandezze da loro compiute?

E qui vengono elencati tutti i governanti cristiani d’Europa la cui azione contraddice clamorosamente il vangelo. Monito per qualche contemporaneo?

E così si chiude il canto XIX.

Due abusivi in Paradiso

Nel canto XX, qualora ci fossero stati dubbi, compaiono tra i beati due anime pagane, quella dell’imperatore Traiano e quella del troiano Rifeo, menzionato nell’Eneide.
Due abusivi, si direbbe. Ma l’aquila ribadisce l’imperscrutabilità del giudizio divino e l’impossibilità per il “mondo errante” di arrivare a conclusioni derivanti dalle proprie convinzioni ideologiche.
In molti punti della Commedia Dante non si è dato pace per il suo maestro Virgilio e per tutti i grandi spiriti esclusi dalla visione di Dio per aver vissuto prima di Cristo. Esclusi dalla salvezza. Perché? Ora forse una risposta arriva.
Forse c’è il varco anche per il Maestro. Magari fuori tempo massimo rispetto alla stesura del poema.

Sappiamo di non sapere

In questi canti sono affermati i limiti della ragione umana e la necessità socratica di essere consapevoli della propria ignoranza rispetto alle realtà ultime. Sono due canti che apparentemente sostengono l’assoluta discrezionalità di Dio nel giudizio. Due canti che apparentemente parlano solo al credente. Ma non è così, anche al di là delle intenzioni dantesche.

La sfida di Dante è quella di rimuovere l’attitudine umana a pronunciare giudizi e ad elevare steccati.
L’aquila, per bocca della quale si pronuncia il poeta, dice chiaramente che la verità promana da Dio e che il volere di Dio è imperscrutabile e per questo imprevedibile.
E in quanto imprevedibile chiama tutti a quel che oggi si direbbe un passo indietro: “E voi, mortali, tenetevi stretti/ a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,/ non conosciamo ancor tutti li eletti”(XX, 133-35).
Persino noi che vediamo Dio non possiamo sapere chi è scelto da Dio. Affermazione forte, che getta un’ombra di criticità su tutte le pretese, anche ecclesiastiche, di pronunciarsi in termini veritativi.

Sembrano i canti della dittatura divina sulla ragione umana, ma in realtà sono i canti della liberazione della ragione umana dalla pretesa di tagliare con la scure i nodi delle complessità della vita.
Proprio i beati del Paradiso (e forse lo sono proprio per questo) sono i sostenitori del “so di non sapere” e della moderazione intellettuale. Di cui tanto bisogno oggi c’è, in tempi in cui tra il Semplice e il Complesso sembra averla vinta il primo.

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