Da questa settimana, la Redazione di Tuttavia.eu è lieta di annunciare l’inizio della collaborazione con don Massimo Naro, una delle voci più significative del panorama teologico italiano, per la rubrica della Lectio Divina domenicale.
Riflessione di don Massimo Naro sulla liturgia della Parola nella XXIII domenica del tempo ordinario (anno C)
Sap 9,13-18
Sal 89/90
Fm 9b-10.12-17
Lc 14,25-33
La liturgia della Parola è oggi affollata di spunti importanti per la nostra meditazione.
A tal punto da sembrare una sorta di matassa aggrovigliata. Per intercettarne il bandolo e per rintracciare il filo rosso che l’attraversa tutta, conviene partire dalla pagina evangelica, alla cui luce occorre rileggere e riascoltare anche gli altri brani biblici odierni.
Nella pagina evangelica emerge la centralità di Cristo Gesù nella vita dei discepoli: «Se uno viene a me e non mi ama di più…, non può essere mio discepolo».
Si tratta, difatti, di convergere verso di lui, magari provenendo da direzioni disparate. E si tratta di entrare in un rapporto privilegiato con lui, quasi esclusivo. Dico “quasi” perché, in realtà, l’amore che deve legarci al Cristo non esclude nessuna delle persone che costituiscono l’ambiente vitale da cui prendiamo le mosse per seguire il Maestro di Nazaret: il padre, la madre, la moglie, il marito, i figli, i fratelli e le sorelle, gli amici – rispetto ai quali Gesù vuole esser amato «di più» – sono proprio quei vari punti fermi esistenziali da cui muoverci, decidendoci a non rimanervi inchiodati, per seguire piuttosto il Cristo.
Ciò vorrebbe dire escluderli dalla nostra vita? No, perché essi sono parte costitutiva del nostro vissuto, fanno inestricabilmente parte delle nostre personali vicende, rappresentano tutto ciò di cui siamo – in un certo senso, in una qualche misura – espressione e sintesi.
Per questa ragione Gesù, parlando alla folla, dopo avere menzionato quel mondo familiare e amicale, chiama in causa «persino la vita stessa» di ciascun discepolo, che costituisce appunto il «di più», la misura d’oltranza (éti te kaì, nel greco dell’evangelista Luca) che qualifica il rapporto d’amore con lui.
Del resto, davvero chi ha a che fare con una persona a noi legata da vincoli d’affetto e stima, ha pure a che fare con noi personalmente, come san Paolo scrive a Filemone riguardo a Onesimo, nella seconda lettura di oggi («Se dunque mi consideri amico, accoglilo come me stesso»). E se noi riversiamo l’intera nostra esistenza incontro al Signore Gesù, allora tutte le persone coinvolte nella nostra vita giungeranno a far capo in lui, come sempre san Paolo lascia intuire, scrivendo a Filemone per invitarlo ad accogliere Onesimo «non più come schiavo» bensì «come fratello carissimo nel Signore». Amare il Cristo più di quanto possiamo e dobbiamo amare gli altri, pertanto, significa non lasciarci alle spalle gli altri, ma condurli con noi – in noi – fino a Cristo Gesù. Il quale, nondimeno, si rivela il nostro nuovo e unico punto di riferimento, il motivo autentico della nostra esistenza. È in tale prospettiva che si afferma la peculiare “esclusività” del rapporto con lui, cioè l’esigenza di un amore “maggiore” da dedicargli. Si percepisce qui il riverbero a ritroso del dialogo tra il Risorto e Pietro sulla spiaggia di Tiberiade: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro e di queste cose?» (Gv 21,15). E, risalendo più a monte nelle Scritture antiche, s’avverte l’eco dello Shemà Israel, che in Dt 6,4-9 rimarcava il profilo del monoteismo biblico, nient’affatto metafisico e semmai relazionale: Adonai è uno non in senso platonico ma in quanto è «l’unico Signore» e, in quanto tale, è tutto. L’unico-Dio-uno è tutto. Per questo il credente totalmente, con tutto se stesso cioè, lo deve amare (e, significativamente, i Settanta saggi d’Alessandria, nel terzo secolo a.C., tradussero dall’ebraico in greco questo brano usando la voce verbale agapáo, che indica l’amore più completo e compiuto), investendo in questa radicale relazione tutte le proprie migliori energie e risorse, quelle emotive e spirituali, al pari di quelle intellettuali e fisiche: «Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze…, quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per strada, quando ti coricherai e quando ti alzerai», in ogni momento e in ogni ambito della vita. Dobbiamo sentire il monito di Gesù ai suoi interlocutori e il suo interrogativo a Pietro come un appello rivolto anche a noi: siamo disposti all’oltranza e alla totalità dell’amore? La risposta, che il messaggio evangelico reclama da noi, implica non tanto la presa di distanza dagli altri, ma il superamento di noi stessi, ovverosia la nostra conversione.
Più precisamente, non l’oblio di chi siamo ma la rinuncia a ciò che pretendiamo di possedere, allorché fraintendiamo e distorciamo la verità delle cose e delle persone attorno a noi: «Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo». Anche quest’avvertimento del Rabbi galileo rievoca altri episodi evangelici, in particolare quello del ricco notabile, provocato a spogliarsi non semplicemente delle sue ricchezze materiali, ma delle sue devote sicumere e delle sue presunzioni religiose, che lo facevano sentire già perfetto e pronto ad assumere un posto di rilievo nel Regno di Dio: «Fin dalla giovinezza ho osservato ogni precetto» (Lc 18,21).Sotto questa luce possiamo ben intendere le due brevi parabole della torre da costruire e della guerra da affrontare: per le imprese della “nostra” vita basta forse il buon senso comune (equipaggiarci debitamente e adeguatamente), ma nel rapporto d’amicizia col Signore è necessario smarcarci dall’ovvietà del buon senso e accettare il rischio del paradosso.
Non serve alcun “nostro” accorgimento per seguire il Maestro, giacché la relazione con lui non si risolve in un nostro progetto o in una nostra strategia. E in questo paradosso evangelico consiste la vera sapienza, quella di cui ci parla la prima lettura.
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