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Da Bruxelles al Pakistan e ritorno. Le frontiere della compassione e il nostro prossimo

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di Luciano Sesta

 

 

   Appena qualche giorno dopo l’attentato terroristico all’aeroporto di Bruxelles e la morte delle studentesse italiane in Spagna, settantadue persone, in maggioranza donne e bambini, sono state uccise da un attacco suicida in un parco pubblico di Lahore, nel Pakistan centrale. Come avviene spesso in questi casi, il verificarsi ravvicinato di tragedie “occidentali” e “orientali” accende, in chi è raggiunto dalle notizie, l’indignazione per il diverso peso mediatico attribuito alle une e alle altre. La strage di cristiani pakistani, come qualcuno è giunto a dire sui social network, è passata inosservata, in fondo, perché le vittime, contrariamente a quelle coinvolte nell’attentato di Bruxelles, non erano in giacca e cravatta.

 

 

   Ma non si tratta solo di Oriente e di Occidente. Si pensi alla recente polemica sulla legge Cirinnà, che ha monopolizzato il dibattito pubblico nel nostro paese, distraendo da temi di ben più ampia e complessa entità, come quello delle migliaia di migranti bloccati per settimane ai confini fra Grecia e Macedonia. Oppure al triste caso Regeni, divenuto un caso internazionale rispetto ad altri terribili episodi di tortura e uccisioni che hanno coinvolto alcune suore in Yemen.

 

   La stessa rassicurazione di rito che dopo un determinato evento catastrofico non vi è nessun cittadino italiano fra le vittime, suona come un’odiosa forma di campanilismo, in un contesto che rende invece doveroso un cordoglio senza frontiere. L’argomento utilizzato è sempre lo stesso: non possono esserci morti di serie A e morti di serie B. Di fronte al dolore e alle tragedie che colpiscono la nostra umanità, le distanze geografiche, ideologiche, di cultura, di lingua e di religione, dovrebbero sempre passare in secondo piano.

 

   Queste proteste sono pienamente condivisibili. Spesso si basano però su un fraintendimento. L’umanità, in generale, non esiste. Esistono invece donne e uomini, ciascuno dei quali è figlio, fratello, genitore, compatriota di altre donne e di altri uomini. Ogni uomo è cioè inserito in una trama di relazioni significative, che rendono colui che ci è più prossimo, sia geograficamente, sia moralmente, più vicino di colui che è lontano. La morte di un essere umano, soprattutto se avviene in circostanze inaspettate e violente come quelle in cui purtroppo spesso avviene, è sempre un evento tragico e doloroso. Ma sarebbe insensato pretendere da tutti i sopravvissuti, qualunque sia il loro grado di vicinanza con la vittima, il medesimo coinvolgimento. Sapere che ogni essere umano ha la sua dignità non è incompatibile con il sentirsi maggiormente coinvolto dal destino di coloro che ci sono più vicini.  

 

   Ne è una tragica conferma la situazione di quei genitori che perdono i figli in incidenti improvvisi, com’è accaduto in Spagna alle studentesse Erasmus, o a causa della crudeltà umana, come a Lahore in Pakistan, dove hanno perso la vita numerosi bambini. Se da un lato sarebbe più umano mostrare dolore per chiunque soffre e muore, senza fare preferenze, dall’altro lato sarebbe disumano chiedere a dei genitori di mostrare, nei confronti della morte di ogni altra persona, lo stesso dolore che li strazia di fronte alla perdita dei loro figli.

 

   La nostra attenzione morale, si potrebbe dire, è un po’ come i cerchi concentrici provocati dal lancio di un sasso nello stagno: è più stretta e marcata nei confronti del nostro prossimo, mentre si affievolisce man mano che si estende ai lontani. La metafora vuole essere rigorosa: che i cerchi più ampi e più deboli siano provocati dalla dilatazione di quelli più stretti e più intensi, infatti, significa che la preoccupazione che avvertiamo per i lontani non è qualcosa di aggiuntivo o di concorrenziale rispetto a quella che avvertiamo per i vicini, ma ne costituisce un prolungamento. Se nella mia città esplode una bomba, io mi sentirò comprensibilmente più coinvolto che se fosse esplosa in una città situata nell’altra parte del globo. E, tuttavia, è soltanto pensando che sarebbe potuto accadere anche a me o ai miei cari che posso immedesimarmi nelle vittime e nei loro parenti, anche se lontani. Finché non comprendiamo che un determinato evento potrebbe accadere anche a noi, infatti, facciamo fatica a coglierne l’oggettiva gravità anche per gli altri. È la stessa logica della regola aurea (“non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”) e del precetto evangelico di “amare il prossimo tuo come te stesso”. Il riferimento ai propri cari, ai propri luoghi e alle proprie abitudini, che ha spinto molti di noi a sentirci più vicini alle vittime di Bruxelles piuttosto che a quelle di Lahore, in tal senso, non è solo frutto di una reazione psicologica istintiva o, peggio, di egoismo piccolo-borghese. Costituisce invece quella presa diretta sugli eventi che, in seguito, ci permette di sentirli nostri anche quando riguardano gli altri.

 

   Su questo tema, purtroppo, è facile cadere in retoriche pseudo-xenofobe o politicamente corrette. Non si tratta, naturalmente, di affermare che un bengalese abbia meno dignità umana di un mio connazionale. Significa solo che, a parità di bisogni in gioco, non è irragionevole sentirsi maggiormente coinvolti dal bisogno del vicino piuttosto che da quello del lontano. Si pensi al problema del diritto al lavoro. Alcune aziende italiane, delocalizzando le loro attività, sottraggono lavoro ai nostri connazionali, concedendolo, a basso costo, a lavoratori stranieri residenti nei loro paesi. In una simile situazione, che pure potrebbe risultare conveniente a chi il lavoro già lo ha – visto che i prodotti lavorati dai bengalesi costerebbero di meno di quelli lavorati in Italia –, noi tutti riteniamo che sia giusto salvaguardare il lavoro dei nostri connazionali. E questo non certo perché i bengalesi non avrebbero un analogo diritto al lavoro, ma perché il nostro governo, e le nostre aziende, sono responsabili principalmente di ciò che accade nella nostra comunità nazionale prima ancora che in altre comunità, del cui bene, peraltro, sono a loro volta principalmente responsabili i rispettivi governi.

 

   “Principalmente” non significa “esclusivamente”. La responsabilità di un politico per il bene della propria comunità non esclude anche una responsabilità internazionale, per esempio in tema di politiche migratorie. Una politica nazionale che dovesse privilegiare lo straniero rispetto al cittadino, però, sarebbe irragionevole quanto il comportamento di una famiglia che, a parità di esigenze, privilegiasse gli estranei rispetto ai propri membri. Se mio figlio ha bisogno di assistenza medica e io non ho sufficienti risorse di tempo e di denaro per garantirla anche a un profugo, sono tenuto a preferire mio figlio al profugo. E non perché la salute di mio figlio sia più importante di quella dello straniero, ma perché io, come genitore, ho uno speciale dovere di responsabilità nei confronti di mio figlio.

 

   La buona fede di questa priorità accordata al prossimo rispetto al lontano è facilmente verificabile. Ed è il rammarico che si prova nel non poter dare a tutti ciò di cui avrebbero bisogno. Avvertire un maggior coinvolgimento nei confronti delle vittime di Bruxelles piuttosto che per quelle di Lahore non è una forma di provincialismo solo se, così facendo, si è pienamente consapevoli del carattere prospettico e limitato della nostra compassione. Consapevoli, in altri termini, dell’impossibilità di guardare le cose super partes, come se le condizioni di spazio, di tempo e le somiglianze culturali e psicologiche fra noi e le vittime non contassero nulla. Nessun uomo si trova in una posizione di equidistanza affettiva, culturale e morale da tutti gli altri. Già Aristotele, criticando il comunismo platonico, aveva detto che in un mondo in cui nessuno potesse dire “mio”, non ci sarebbe più nemmeno il “nostro”. Non ci sarebbe niente che ci sta realmente a cuore, e il nostro sentimento nei confronti delle tragedie altrui sarebbe di indifferenza, non di maggiore partecipazione.  

 

 

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