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“Il Covid? Ci ha riportato alla realtà” .Intervista a Pasquale Hamel

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Con il potenziamento della campagna vaccinale e l’inizio dell’estate la pandemia da Covid-19 sembra fare meno paura. Quello che attraversiamo è un momento – speriamo non passeggero – per occuparci del rilancio del Paese dopo molti mesi spesi a controllare la diffusione del virus. Varie sfide si presentano all’orizzonte. Dall’aumento della povertà al fenomeno delle migrazioni, dallo sviluppo economico al rilancio di percorsi volti a garantire un’adeguata classe dirigente per la nostra comunità.

Di questi temi discutiamo con Pasquale Hamel. Già vicesegretario dell’Assemblea Regionale Siciliana e docente di storia contemporanea presso l’Università di Palermo, Hamel ha scritto su Avvenire e La Repubblica ed è opinionista del Giornale di Sicilia.


– Professore Hamel, la pandemia è stato un evento dalle tragiche conseguenze e del tutto inatteso. Alcuni hanno scomodato paragoni con altri eventi catastrofici della storia dell’umanità ai quali sono sempre succeduti periodi di ripresa e rinascita culturale, economica e politica. A livello globale, come anche sul versante locale, cosa può insegnarci questo tempo contrassegnato dalla presenza del Covid-19?

Il richiamo alla storia, ad eventi catastrofici come lo furono la Peste Nera, che flagellò l’Europa dal 1347, o come la più recente Influenza Spagnola che, fra il 1918 e il 1920, uccise oltre cinquanta milioni di persone, non è inopportuno, visto che le ricadute negative che ebbero sulla realtà economico-sociale sono state così rilevanti da imprimere, con le dovute proporzioni, similmente a quanto sta accadendo per il Covid 19, un corso nuovo alla storia del mondo. La pandemia ha infatti ridimensionato il sostanziale ottimismo che, nonostante le grandi contraddizioni che le attraversano, ha pervaso le nostre società e che è stata la spinta maggiore al progresso umano, ma ha anche messo in discussione il modello di sviluppo occidentale costringendoci a confrontarci con le grandi emergenze sanitarie e ambientali. Il Covid ci ha riportato alla realtà, in poche parole, ci ha fatto riscoprire la nostra umana fragilità. Per cui, il “nulla sarà come prima”, gridato da qualcuno e da altri fortemente contestato, siamo costretti a riconoscere che contiene un nucleo di verità ineludibile. Sono certo che molte cose cambieranno e dovranno necessariamente cambiare. In questo senso, la terribile esperienza, che abbiamo vissuto e che stiamo ancora vivendo, assume anche un rilevante valore pedagogico, può farci comprendere che il delirio di onnipotenza umano va confrontato con limiti di cui non abbiamo tenuto conto, a cominciare dallo sfruttamento delle risorse ambientali.

– Di recente l’ISTAT ha certificato l’aumento della povertà assoluta nel nostro Paese. Un dato sicuramente influenzato dagli effetti della pandemia ma che per l’Italia ha sempre rappresentato una sorta di tallone d’Achille. Misure come quelle del “reddito di cittadinanza” sono sufficienti per rispondere a questo atavico problema?

È sconvolgente apprendere che nel nostro Paese vi siano circa sei milioni di cittadini che vivono in stato di indigenza. Si tratta di un decimo della popolazione nazionale. Ma appare ancor più sconvolgente il fatto che l’aumento della povertà si collochi oggi nelle aree forti del Paese. Queste cifre ci fanno intanto capire come ci sia un rapporto di causa-effetto fra la pandemia e incremento della povertà. Sappiamo che in questo periodo, nonostante il blocco dei licenziamenti, circa un milione di persone sono state espulse dal mercato del lavoro, e questo non può che incidere sull’aumento della povertà. I governi che si sono succeduti hanno cercato attraverso provvedimenti, come il “reddito di cittadinanza” – approssimativamente considerato come lo strumento per sconfiggere la povertà – di attenuare il disagio sociale che deriva dal rapido impoverimento delle famiglie e dei singoli individui. Personalmente considero tali misure insufficienti, dei veri e propri pannicelli caldi. Sono convinto che bisogna incidere sulle cause della povertà e, in ragione di ciò, puntare al rilancio del nostro patrimonio industriale sostenendo le imprese con adeguate agevolazioni fiscali, con sgravi sul costo del lavoro, con l’abbattimento delle barriere burocratiche che, forse, sono l’ostacolo più rilevante alla nascita e allo sviluppo dell’impresa. Aggiungo, e non credo sia superfluo, la opportunità di un cambio di mentalità, bisogna smetterla con il considerare l’impresa luogo di sfruttamento e perfino di malaffare, bisogna guardare all’impresa come opportunità offerta per rispondere alla sacrosanta domanda di lavoro – quel lavoro che rende liberi – che è presente nella nostra società.

– La notizia dell’avviso di garanzia recapitato ad un pescatore poiché aveva salvato un gruppo di migranti in mare ha riacceso le polemiche sulle politiche migratorie. Da europei concentrati soltanto sui nostri problemi, non riusciamo a leggere il fenomeno per la sua vera entità che corrisponde ad un processo mondiale che riguarda milioni di esseri umani colpiti da guerre, carestie e crisi climatica. Perché, a suo parere, tale questione divide i governi europei?

Mi ha molto colpito questa vicenda anche perché l’ho considerata una spia della difficoltà che sta vivendo l’ordine giudiziario afflitto da protagonismo oltremisura e, mi si perdoni la frase, da un certo delirio di onnipotenza che troppo spesso lo porta da qualche anno a straripare, al di là dei limiti che la nostra Costituzione ha posto, invadendo lo spazio della politica. Dico subito, nel caso in specie, che il magistrato non è andato oltre la legge, ha fatto quanto previsto dalla legge. Resta però il fatto che mentre centinaia di altre vicende in cui si rileva un fumus di reato giacciono sui tavoli delle varie procure e che, per ragioni obiettive a cominciare dall’insufficienza di personale, vengono trascurate, si prenda in considerazione una vicenda che è manifestazione di quel diritto umanitario, spesso non scritto, che dovrebbe costituire per ogni uomo un imperativo categorico. Per quanto riguarda poi il problema dei migranti – delle centinaia di migliaia, o milioni, di uomini che per ragioni belliche o, piuttosto, per ragioni economiche si sobbarcano a viaggi che spesso si risolvono in tragedie – il discorso è, a mio modo di vedere, molto complesso. È chiaro, lo dico senza peli sulla lingua, che dietro questa spinta verso l’Europa, ci siano grandi interessi e, non è escluso, reconditi disegni. Proprio questi interessi e questi reconditi disegni dovrebbero, e non lo sono a sufficienza, essere indagati con grande serietà per eleminare quelle ombre che insistono sul fenomeno migratorio. Bisogna capire anche fino a qual punto e in quale dimensione le migrazioni corrispondano ad interessi degli migranti, cioè di uomini che, e ne hanno diritto, ambiscano ad una vita migliore o invece se questi interessi non esistano e invece siano spinti contro la loro stessa volontà a migrare. Un dialogo concreto con alcuni dei Paesi che costituiscono stazione di partenza dei migranti appare dunque necessario. Detto questo, contro la solita lamentela che ci vede, noi italiani, cattivi ad ogni costo e quindi ci invita all’autoflagellazione, dico che l’Italia ha fatto e sta facendo, con grandi sacrifici economici che ricadono sull’intera comunità, pienamente il suo dovere corrispondendo alla sua storia, che anche storia di accoglienza e di sensibilità umanitaria. Non si può dire la stessa cosa per molti altri Paesi europei che, al di là delle dichiarazioni di principio, spesso si trincerano dietro alcune regole per non accettare la loro quota di migranti, credo che il presidente Draghi stia lavorando per superare questi ostacoli.

– L’avvento del governo Draghi ha portato un generale dell’esercito italiano alla guida dell’organizzazione della campagna vaccinale. Alcuni intellettuali come Michela Murgia si sono infastiditi della frequente ostentazione pubblica della divisa indossata dal generale Figliuolo. Se è vero che la costituzione italiana prevede per le forze armate compiti di protezione civile è ancora più vero che una parte dell’opinione pubblica del nostro Paese non è disposta a vedere troppo spesso una divisa poiché questa potrebbe richiamare a logiche di “militarizzazione” di spazi civili. Non dovremmo, come comunità nazionale, affrontare simili questioni con una diversa maturità storico-culturale?

C’è molto provincialismo in questo nostro Paese e gli intellettuali, Murgia compresa, ne sono espressione evidente. Comincio col dire che la mancanza o superficialità di informazioni è madre di queste critiche. Se infatti la sig. Murgia e chi ci va dietro si fossero informati avrebbero appreso che il militare comandato anche ad un servizio deve obbligatoriamente portare la divisa, lo precisa il regolamento del ministero della difesa per le uniformi. Il generale Figliolo, alla cui efficienza si deve l’accelerazione della vaccinazione, è militare comandato per un servizio civile e quindi è obbligato a portare la divisa. Messa da parte questa informazione, debbo lamentare il limite di una parte della opinione pubblica italiana condizionata da pregiudizi e pregiudiziali nei confronti dei militari. In tutti i Paesi occidentali le forze armate, che come prevede la nostra Costituzione la quale sottolinea che sono giustamente al servizio della Repubblica stabilendo con ciò il primato del civile, hanno invece una diversa considerazione, sono ritenute parte essenziale dello Stato e non contrapposte allo Stato e, tanto più, portatrici di una vocazione autoritaria. In Italia, nonostante il contributo che le stesse Forze armate hanno dato al consolidamento dello Stato e della stessa democrazia, non dimentichiamo che nei momenti critici causati dalle ripetute calamità naturali hanno dato il loro rilevante contributo umanitario, sono troppo spesso circondate dal sospetto, ritenute quasi un corpo estraneo allo Stato da cui guardarsi. Un errore che va opportunamente stigmatizzato e che affonda le sue radici in una superficiale, o interessata, lettura della storia d’Italia su cui ha fatto aggio un certo pacifismo di sinistra e anche segmenti dello stesso mondo cattolico.   

– Nel giorno delle primarie del centrosinistra per la scelta dei candidati al ruolo di sindaco per le città di Roma e Bologna, Berlusconi e Salvini siglavano una sorta di patto per la costituzione di un partito unico del centrodestra. Come valuta questi modelli politici almeno all’apparenza così distanti fra di loro?

Sono stato anch’io sedotto da questi strumenti di democrazia, oggi però ne ho preso le distanze e i flop che hanno contraddistinto la partecipazione mi hanno dato ragione. Detto questo, ritengo quanto sta avvenendo un modo per non affrontare la vera crisi della democrazia italiana che è dato dall’assenza di una classe dirigente all’altezza del tempo presente. Gente raccogliticcia, senza visione o capacità progettuale, abita le istituzioni e determina i guasti che sono sotto gli occhi di tutti. Il mio sogno è un Paese moderno, in cui forze politiche competenti e responsabili si occupino seriamente della cosa pubblica. Il modello è quello di una sinistra riformista, che la smetta di rimpiangere marxismo e comunismo, ed invece accettando globalismo e capitalismo si impegni a trovare strumenti per governarli in funzione del benessere generale, che si contrappone ad una destra moderata, capace di emarginare ogni vocazione autoritaria e impegnata sulla barricata della responsabilità. Purtroppo in Italia queste condizioni sono difficili da realizzare, la nostra opinione pubblica ragiona soprattutto di pancia ed è fortemente divisa mentre appare assente di senso dello Stato al punto che nemmeno lo stato di necessità, dettato dalla pandemia, è riuscito a moderarne tante insensatezze. L’unica speranza che ripongo è nella presenza di Draghi, un vero liberal che sa il fatto suo e per questo motivo gode di stima e autorevolezza soprattutto fuori dall’asfittica e, lo ripeto, provinciale realtà italiana.

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