Che noi italiani fossimo fantasiosi era noto; ma che potessimo allestire, sotto gli occhi stupefatti di tutto il mondo, una sceneggiata così divertente – nel senso del detto: “si ride per non piangere” – , pochi se lo sarebbero potuto immaginare. Dal 4 marzo – data salutata pomposamente, dai partiti vincitori della tornata elettorale, come “storica”, di storico essi hanno prodotto solo un teatrino al cui confronto i giochi di potere della Prima e della Seconda Repubblica impallidiscono. Ora che questa telenovela si è finalmente conclusa (almeno per ora, perché in essa, come in molte telenovelas, personaggi che si credevano morti riappaiono inopinatamente e altri, vivi, scompaiono dalla scena) il Paese si trova davanti alle macerie di tre mesi di caos politico che, oltre a danneggiare seriamente la credibilità dell’Italia a livello finanziario, non sono un buon inizio, per chi aveva promesso agli elettori di inaugurare un stagione nuova di trasparenza e di attenzione alle reali esigenze dei cittadini.
Ma è stata proprio la reazione degli elettori la cosa forse più sorprendente. Dopo i giorni in cui gli occhi di tutti sono stati puntati su ciò che accadeva nei saloni del Quirinale e sulle dichiarazioni dei leader, io credo che il vero spettacolo, in questi giorni – tragedia, farsa, o entrambe – sia stata la fede, davvero commovente, che un numero rilevante di nostri connazionali, in questi tre mesi, ha mantenuto inalterata – anzi, stando ai sondaggi, ha ulteriormente rafforzato – nelle promesse che erano state loro fatte, alla vigilia delle elezioni dagli alfieri del rinnovamento. Una fede così forte da impedire di trovare qualcosa di strano in una serie di passaggi della recente crisi, che qui proviamo ad enumerare.
Primo: che, dopo avere sempre sprezzantemente bollato come «inciucio», finalizzato al mero potere, l’accordo tra forze politiche eterogenee (come quello tra Renzi e Berlusconi prima, tra Renzi ed Alfano poi), promettendo solennemente di non cedere mai a simili compromessi, Lega e 5stelle si siano ritenuti esonerati da questa promessa solo perché, nel mettere insieme programmi elettorali evidentemente contraddittori, hanno chiamato la loro alleanza per formare un governo «contratto», invece che «accordo».
Secondo: che, dopo aver esecrato i governi di Monti e di Renzi perché guidati da un leader «che non era stato eletto da nessuno», Salvini e Di Maio non abbiano avuto difficoltà a indicare come presidente del loro governo un personaggio senza alcuna storia politica (e non eletto dal popolo) come Conte, la cui unica differenza rispetto a Monti era che quest’ultimo – con tutti i gravissimi errori che poi ha fatto – godeva almeno, in partenza, della stima unanime degli ambienti scientifici e politici europei e statunitensi.
Terzo: che, dopo aver sottolineato che «per la prima volta nella storia» il governo nasceva sulla base dei programmi e non delle poltrone, Lega e 5stelle lo abbiano mandato a monte perché il Presidente della Repubblica, senza peraltro intromettersi nella loro linea politica (aveva proposto, in alternativa a Savona, un altro rappresentante scelto comunque da loro, come poi è stato), ha messo in discussione (come era suo diritto fare) il nome del possibile occupante di una poltrona, e lo abbiano rimesso in piedi dopo un’estenuante trattativa sempre sulle poltrone.
Quarto: che Salvini e Di Maio abbiano invocato, contro Mattarella, i diritti della volontà popolare sul tema del rapporto con l’Europa, quando in realtà nella campagna elettorale entrambi avevano evitato di sottoporre all’elettorato questo problema, che del resto, per la sua gravità avrebbe meritato di essere, come in Inghilterra, oggetto di un apposito referendum (i 5stelle avevano addirittura cancellato dal loro programma questo punto, che pure avevano sostenuto per anni; e la Lega aveva insistito soprattutto sulle misure restrittive all’immigrazione e sulla sicurezza).
Quinto: che sia Di Maio che Salvini abbiano ossessivamente demonizzato i mercati e il sistema capitalistico, accusando Mattarella di esserne succube, mentre risulta dal “contratto” che uno dei punti centrali del loro programma è di diminuire le tasse ai ricchi, abolendo il principio fondamentale della progressività.
Sesto: che la Lega abbia potuto presentarsi come espressione del “nuovo”, in aspra polemica con la «Seconda Repubblica» e con le istituzioni ad essa legate, dopo aver fatto parte dei governi guidati da Berlusconi – il simbolo più illustre delle malefatte di questa stagione – già, per un breve periodo, nel 1994, poi, per lunghi periodi, dopo il 2001, ed essersi presentata alle elezioni in una coalizione con Forza Italia che è stata e rimane un punto fermo della sua politica.
Settimo: che i leader di Lega e 5stelle, soprattutto Salvini, dopo aver affidato al prof. Conte il compito di discutere col Capo dello Stato la lista dei ministri, siano stati continuamente sulle piazze a dichiarare come ultimativa la scelta (che, secondo la Costituzione non toccava minimamente a loro) del titolare dell’economia, creando in realtà un “braccio di ferro” simbolico tra le istituzioni a cui essa competeva secondo la Costituzione e la loro pretesa di scavalcare queste istituzioni in nome del voto popolare (che alla Lega aveva dato tra l’altro solo il 17% dei voti…).
Ottavo: che Salvini abbia continuato a sottolineare la sua ira e la sua pazienza di fronte alle lungaggini del Capo dello Stato – quando è stato chiaro che ad avere una certosina pazienza, di fronte alle giravolte e alle continue richieste di dilazione da parte dei 5stelle e della Lega, è stato proprio Mattarella.
Nono: che Di Maio, col 32% dei voti, abbia lasciato a Salvini – che ne ha solo il 17% – il diritto di guidare praticamente le trattative per questo governo, come se fosse lui il rappresentate del popolo italiano, al punto da lasciare che imponesse, per il ministero dell’economia, un nome che si sapeva in partenza sarebbe stato rifiutato da Mattarella, senza neppure chiedere che fosse previsto un ricambio, dando luogo a una crisi che solo per un pelo, alla fine, si è riusciti a risolvere (accettando semplicemente quella che fin dall’inizio era la semplice e legittima richiesta del Capo dello Stato).
Decimo: che Di Maio, dopo aver ripetutamente dichiarato la sua deferenza per lo stesso Capo dello Stato, ne abbia addirittura chiesto l’impeachment per alto tradimento per il solo fatto che aveva rifiutato un nome (peraltro anch’esso non votato da nessuno) della lista dei ministri, salvo poi a ritirare la richiesta e andar a trovare Mattarella “col cappello in mano”, dando l’evidente percezione di uno stile di emotività e improntitudine che non lascia ben sperare per il futuro governo.
Parlavo prima della grande fede dimostrata da molti italiani che hanno considerato normale tutto questo. Una fede che, però, a differenza di quella richiesta dalla teologia cattolica, non sembra voler sottoporsi alla verifica della ragione e del principio fondamentale che, nella logica, la rappresenta: quello di non contraddizione, per cui non si può dire o fare al tempo stesso una cosa e il suo contrario.
Questo disprezzo per la razionalità mi ricorda un’altra stagione della storia italiana, in cui il “vecchio” aveva stancato e disgustato (anche allora, per reali responsabilità dei suoi rappresentanti) e la ricerca del “nuovo” era così forte da far apparire insignificanti, alle masse, i voltafaccia e le doppiezze di chi pretendeva di rappresentarlo.
Anche allora il tentativo di alcuni di far valere le loro obiezioni, o quanto meno di discuterle, fu irriso e accusato di opportunismo. Anche allora le parole significavano poco e servivano a mascherare comportamenti contrari. Anche allora, purtroppo – come oggi, coloro che si opponevano a questo irrazionalismo dilagante furono divisi, deboli, attaccati al loro potere, favorendo il trionfo di chi, mentre diceva tutto e il contrario di tutto, riusciva a persuadere le masse senza bisogno di convincerle con degli argomenti.
Dio non voglia che questo passato ritorni – anche se in forme indubbiamente diverse – nella storia del nostro Paese, con la complice inconsapevolezza di alcuni e con la colpevole impotenza di altri.
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