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I Chiaroscuri – Il crollo del Ponte Morandi: la voce della realtà, le vere priorità del paese

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savagnone-3-small-articoloCon il crollo del ponte Morandi, la realtà, in tutta la sua brutale evidenza, fa irruzione in questo delicato momento della nostra vita pubblica, e ridicolizza sei mesi di ininterrotta campagna elettorale centrata in modo ossessivo sul tema dei migranti. Quella di Genova è una tragedia che – proprio perché non è una fatalità, ma il frutto di un intreccio inestricabile di interessi, incompetenze, errori umani – costringe gli italiani a ricordarsi, finalmente, che i problemi del nostro Paese non nascono, come si è cercato di far loro credere, dall’approdo sulle nostre coste di qualche migliaio di disgraziati in cerca di una vita migliore, ma da disfunzioni e contraddizioni che non vengono dal di fuori, ma sono profondamente radicate nel nostro stesso tessuto sociale, politico, culturale.

Era della lotta contro queste disfunzioni e contraddizioni che un “governo del cambiamento” avrebbe dovuto farsi carico fin dall’inizio. E ciò vale anche per la delicata gestione delle infrastrutture. Così, sarebbe stato opportuno che il neo-ministro Danilo Toninelli, addetto a questo settore, invece di stare quasi ininterrottamente in Tv per ripetere che i porti italiani dovevano restare chiusi alle navi dei migranti, annunciasse un serio programma in questo senso.

Per farlo, però, avrebbe dovuto prima prendere coscienza dei problemi. Oggi lui e Di Maio gridano a gran voce che i responsabili dovranno pagare. Ma nel 2014 il loro mentore, Grillo, col suo solito furore sarcastico, bollava la costruzione della Gronda, l’opera alternativa che avrebbe potuto evitare il disastro, come un assurdo spreco di denaro pubblico e in un comizio invocava l’intervento dell’esercito per fermarla.

Ponte_Morandi_crollatoEra dal 2012 la linea dei 5stelle. «La Gronda è un’opera non solo inutile, ma anche dannosa. I veri problemi del Ponente sono ben altri, non di certo la viabilità» si legge in un post pubblicato sulla pagina ufficiale del gruppo Consiliare M5S Genova. E anche Di Maio, in campagna elettorale in Liguria, prometteva di bloccare il raddoppio autostradale a Genova. La premessa era la negazione, con la solita irridente aggressività, di chi invocava la Gronda per evitare il pericolo del crollo del ponte Morandi, che nel sito dei 5stelle veniva definito «una favoletta». Su questa base Toninelli, in questi pochi giorni di governo, aveva già inserito la Gronda tra le opere «da sottoporre ad una revisione che contempli anche l’abbandono del progetto».

È chiaro che non si può addebitare a questa strenua opposizione dei pentastellati ciò che è accaduto. Ma essa attesta drammaticamente la loro tendenza a correre a tutta velocità nella direzione esattamente opposta a quella che sarebbe richiesta dalla realtà. Una tendenza che, peraltro, è di tutto il “governo del cambiamento” e che ha il suo “motore” nella Lega. Il ministro degli Interni Salvini che, mentre si scava tra le macerie del ponte per recuperare i sopravvissuti, dalla Calabria esulta, in un twitter, perché ancora una volta è riuscito a impedire che un pugno di migranti sbarcasse in Italia, è il tragico emblema di questa situazione surreale.

La realtà è una maestra severa, talvolta crudele, però sa come farsi ascoltare, e la sua voce è molto più potente del confuso chiacchiericcio dei social. Essa ci dice, in questo momento, che l’urgenza a cui non possiamo sottrarci è quella di un profondo rinnovamento etico e civile. Se ha ragione chi sostiene che dietro il crollo del ponte Morandi c’è una lunga storia di interessate omissioni, di ingiustificati privilegi, di ciniche speculazioni, e se questo non è un episodio isolato, ma il drammatico venire alla luce di uno stile diffuso di corruzione, che avvelena buona parte della nostra classe dirigente, il problema non è il cedimento materiale di una struttura, ma quello, più profondo, di una società e dei suoi valori.

Altro che immigrati; altro che zingari! Siamo noi, gli italiani, la minaccia. Siamo in un Paese dove la gestione della cosa pubblica risente ormai da decenni – ed è l’anima di verità della “rivoluzione” dei 5stelle – di un vuoto morale che ha deteriorato la vita pubblica e generato profonde ingiustizie. E di questo siamo tutti responsabili. Per il cittadino è facile esorcizzare le proprie responsabilità scaricandole sulla “casta”. Ma per tanti anni, durante la Seconda Repubblica, siamo stati noi – il “popolo”, gli elettori –, a portare in parlamento alcuni dei peggiori personaggi pubblici, forse, della storia repubblicana. Persone disposte a passare da un estremo all’altro dello schieramento politico, da un giorno all’altro, senza fare una piega, magari confessando, a posteriori, di essersi lasciate comprare, materialmente, a suon di euro. Siamo stati noi ad alimentare, nel quotidiano, uno stile di illegalità che ha reso l’evasione fiscale la regola per i grandi e per i piccoli, con la motivazione che “c’è chi fa di peggio”.

Insomma, al di là delle indignate proteste che si sentono nei bar, all’insegna del qualunquistico “sono tutti ladri”, c’è stata e continua ad esserci una sostanziale complicità tra le vittime e i mariuoli che sistematicamente le sfruttano e le derubano. E non si tratta di ingenuità, ma di una cultura diffusa, che ritiene il bene comune un’utopia e che porta la gente ad avanzare, in nome delle prevaricazioni degli altri, la pretesa di compiere le proprie. In questo clima, i ladri possono essere criticati, ma alla fine ricevono ammirazione e sostegno, magari nella speranza di poter godere di altrettanta impunità.

Così è stato possibile che il 4 marzo uno dei partiti “del cambiamento” sia andato alle elezioni, e si sia poi perfino presentato alle consultazioni per formare il nuovo governo, accanto a un emblematico rappresentante di questo stile deteriore, ufficialmente sanzionato da una condanna giudiziaria per frode.

Tutto ciò non è solo indegno, ma anche dannoso – e non solo per la solidità delle infrastrutture come il ponte crollato. Si parla tanto di crisi finanziaria, denunziando immaginari complotti internazionali. Ma proviamo a chiederci: se uno ha dei soldi da investire, li investirebbe in un paese dove gli uomini politici di punta vengono condannati per frode e continuano a restare al loro posto, col pieno appoggio del loro elettorato, oppure in uno dove vige uno stile di correttezza?

Non è un problema di norme giuridiche, ma di costume. Se la legalità si dovesse misurare dal numero delle leggi, l’Italia ne sarebbe la patria. Secondo alcune stime, a fronte delle 3.000 della Gran Bretagna, alle 5.500 della Germania, alle 7.000 della Francia, da noi si calcola che ve ne siano fra le 150.000 e le 200.000.

Sappiamo tutti, però, che in realtà le regole vengono trasgredite da noi più che altrove. È come se ci divertissimo a moltiplicarle per poterle violare. Anzi è la loro stessa moltiplicazione che sembra favorire la loro reciproca neutralizzazione e assicurare, alla fine, l’impunità dei disonesti, che di solito si possono permettere dei buoni avvocati.

Il vero problema, allora, è di educare le persone a una cittadinanza responsabile. Se, invece di alimentare la rabbia della gente concentrandola sulle colpe degli altri, come fa un certo populismo, si cercasse di far capire che il “cambiamento” deve cominciare da ciascuno di noi, nella quotidianità della vita associata, con i sacrifici, ma anche con i benefici che da questo possono derivare, forse si comincerebbe a respirare nella nostra società, a partire dal basso, un clima diverso da quello avvelenato della corruzione e della sopraffazione reciproca.

E questo si incontrerebbe con lo sforzo di uomini di buona volontà – che pur ci sono, tanto al governo quanto all’opposizione –, desiderosi di interpretare correttamente il loro mandato e di lavorare alle vere priorità del bene comune, contro le manovre illusionistiche che distolgono da esse. È una strada lunga. Ma un ponte che crolla non si ricostruisce in un giorno.

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