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I Chiaroscuri – La marginalità della Chiesa nel tempo del coronavirus

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La Chiesa e i riti di passaggio

La Chiesa è diventata invisibile? Alcuni lo credono e ne portano le ragioni. Che cosa garantiva la visibilità dell’istituzione ecclesiastica più delle liturgie e dell’amministrazione dei saramenti? Ai suoi rappresentanti in larga misura era affidata, almeno nel nostro Paese, la gestione di quei “riti di passaggio” che presso tutti i popoli hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nello scandire la vita dei singoli e delle comunità. La nascita veniva solennizzata in chiesa col battesimo; l’uscita dall’infanzia con la prima comunione; l’ingresso nell’età adulta con la cresima; il passaggio dalla condizione di single alla vita di coppia con il matrimonio; e infine la morte con il funerale.

Si aggiunga a questo la celebrazione dell’eucaristia ogni domenica e nelle solennità come Natale o Pasqua, dove affluiscono solitamente, specialmente nel Meridione, folle considerevoli di fedeli.

Poiché questi riti assumono una grande rilevanza non soltanto religiosa, ma sociale, si comprende bene perché la Chiesa, identificata spesso con la sua gerarchia (vescovi, presbiteri, diaconi), debba ad essi molta della sua visibilità.

Il comunicato della Cei

Il coronavirus ha improvvisamente bloccato tutto questo. Il pericolo di contagio ha spinto il governo a vietare, l’8 marzo, «le cerimonie civili e religiose», e a questa misura si è adeguata la Conferenza Episcopale Italiana – pur considerandola «un passaggio fortemente restrittivo, la cui accoglienza incontra sofferenze e difficoltà nei Pastori, nei sacerdoti e nei fedeli» – «per contribuire alla tutela della salute pubblica».

Una scelta che è stato oggetto di forti polemiche, perché è apparsa a molti un cedimento a logiche troppo umane di politica sanitaria, nel totale misconoscimento di quell’ottica di fede che invece, da parte delle autorità ecclesiastiche, avrebbe dovuto esser custodita e difesa.

Il confronto col passato

Ad avanzare forti riserve in questo senso, peraltro, non sono stati solo dei “conservatori” ciecamente attaccati alle tradizioni, ma personalità di spicco e tutt’altro che retrive. Come ad esempio il noto storico cattolico Franco Cardini, che, ai primi di marzo – quando ancora la sospensione delle liturgie riguardava solo le regioni più colpite dall’epidemia –, in un’intervista su «La Stampa», dopo aver constatato che «una volta durante le epidemie si organizzavano novene e processioni per invocare la protezione divina, oggi si chiudono le chiese», ne aveva concluso che «la nostra fede in Dio zoppica».

Il messaggio della politica e quello della preghiera

Solo qualche giorno prima, alla fine di febbraio, anche Andrea Riccardi aveva ricordato che i primi cristiani, «motivati dalla fede», si facevano apprezzare proprio per la loro coraggiosa presenza in mezzo alle comunità vittime del contagio e si era detto preoccupato che «di fronte alla grande paura, parli solo il messaggio della politica», nel silenzio delle chiese. «Il libero trovarsi insieme nella preghiera sarebbe stato ben altro messaggio».

La dimensione pastorale mortificata

Sulla stessa lunghezza d’onda Enzo Bianchi, che partiva da un interrogativo retorico per arrivare a una presa di posizione critica: «Ma siamo sicuri che la chiesa adottando, contro il contagio del coronavirus, misure che impediscono liturgie, preghiere e addirittura funerali partecipati dalla comunità, sia solidale con chi soffre, ha paura e cerca consolazione? Un cristiano non sospende la liturgia!».

In un altro intervento, successivo all’8 marzo, il fondatore della comunità di Bose evidenziava il tono burocratico del comunicato della Cei, che aveva dato direttive «nelle quali non si intravede la presenza di preoccupazioni pastorali e cristiane dettate dal Vangelo».

Il problema della distinzione dei poteri

Da un diverso punto di vista, lo storico Alberto Melloni, pur comprendendo le ragioni che portavano alla sospensione delle liturgie, sollevava il delicato problema dell’autonomia della Chiesa rispetto allo Stato e si chiedeva se fosse normale che il popolo cristiano venisse escluso dall’eucaristia «per decreto» delle autorità politiche.

La domanda che emerge

Questi interventi chiaramente vanno letti in un contesto in cui ancora la gravità della pandemia non si era pienamente manifestata e in seguito i loro autori li hanno in parte rettificati. Se li ho citati non è perciò per polemizzare con persone che stimo, ma perché essi non sono affatto privi di fondamento, anzi esprimono bene un problema reale.

In passato, in analoghe situazioni, vescovi e preti erano stati il punto di riferimento della popolazione, chiamando a raccolta i fedeli in grandi manifestazioni di massa – messe, processioni –, e lo avevano potuto fare appellandosi a una fede che si era rivelata più forte della paura. Erano stati loro, con questo fermo richiamo all’onnipotenza divina, a dare speranza contro pestilenze e carestie. Il silenzio dei Pastori, nella presente situazione, non ha evidenziato e confermato l’irrilevanza della Chiesa e dello stesso vangelo nella società contemporanea?

Una Chiesa marginale…

Ho posto questa domanda, in un’intervista che è pubblicata su «Tuttavia», al vescovo di Palermo, mons. Corrado Lorefice. La sua risposta mi sembra significativa: «La marginalità, per alcuni aspetti» – ha detto il vescovo, «è costitutiva dell’identità della Chiesa, anche se noi spesso ancora abbiamo nostalgia della cristianità. Penso all’immagine evangelica del sale o del lievito, che si perdono nella pasta. E più la Chiesa è consapevole di questa sua identità “marginale”, più è capace, in realtà, di trasmettere efficacemente il messaggio del vangelo».

…non si afferma in competizione coi valori creati

Una Chiesa marginale non ha bisogno di sfidare la scienza – come è avvenuto in altre epoche, sulla base di logiche di potere (vedi caso Galilei) –, come vorrebbe l’uomo politico che provocatoriamente pochi giorni fa ha sfidato le autorità ecclesiastiche ad aver fede nel “buon Dio” e a convocare i fedeli per le funzioni pasquali, fidando nella «protezione del Cuore Immacolato di Maria». Essa ha avuto ricordato dal Concilio che i valori terreni – la razionalità, il sapere scientifico, la salute – vanno rispettati proprio per onorare il Dio che li ha creati e che anche attraverso essi manifesta la sua gloria.

In questo senso, è verissimo che la posizione dei vescovi italiani è apparsa, in un primo momento (nel famoso comunicato dell’8 marzo) quasi un cedimento di fronte a criteri e a poteri di ordine “profano” – come hanno notato alcuni degli intellettuali cattolici sopra citati –, ma è altrettanto vero che, al di là dell’infelice modalità comunicativa, le motivazioni per sospendere le liturgie non si possono ridurre a ragioni “di ordine pubblico”, ma sono di ordine squisitamente evangelico.

Il ricorso alle nuove tecniche della comunicazione

Una Chiesa marginale, che sa di dover essere lievito, adattandosi alla pasta che concretamente è chiamata a far lievitare, non disdegna neppure di utilizzare gli strumenti offerti dalla tecnica per realizzare nuove forme di comunicazione  e di comunione. Così – dopo le incertezze inziali di cui si è appena detto – bisogna dare atto all’episcopato e a tutto il clero di essersi mobilitati per ricostruire sulla rete quel complesso di rapporti personali e comunitari che la minaccia del coronavirus ha reso impossibile proseguire fisicamente.

Questo ricorso al virtuale ha costituito una novità per molti versi stimolante. Alcuni si sono allontanati, ma altri si sono accostati. Penso alle celebrazioni del mattino di papa Francesco, seguite su Tv2000 e Rai1da tanti che non erano mai andati a messa nei giorni feriali. Penso all’enorme impressione suscitata anche in ambienti estranei alla fede dalla benedizione “urbi et orbi”, nella piazza S. Pietro deserta. Ma molte diocesi, molte parrocchie, hanno raccolto la sfida e hanno attivato inedite forme di collegamento.

Rischi e speranze

Certo, l’operazione crea dei problemi che non vanno sottovalutati. Enzo Bianchi, giustamente, ha notato che una partecipazione virtuale non può sostituire quella dei fedeli “in carne ed ossa” (si pensi all’impossibilità per essi di accostarsi al pane eucaristico). E in un certo senso è vero che «la virtualizzazione della liturgia significa morte della liturgia cristiana», perché «la liturgia eucaristica deve sempre essere azione di tutta la comunità», mentre in questo contesto si corre il rischio che i fedeli si trovino relegati nel ruolo di meri spettatori di celebrazioni i cui protagonisti sono i soli presbiteri celebranti.

C’è da chiedersi però se, guardando le cose da un altro punto di vista, questo “digiuno di riti” non possa – purché sia temporaneo – costituire uno shock salutare per tanti buoni cattolici che limitavano la propria esperienza cristiana a una frequentazione abitudinaria della chiesa parrocchiale, ridotta una “stazione di servizio” per la distribuzione di sacramenti. Certo, non avremmo avuto il coraggio di imporre questo digiuno: sarebbe stata una scommessa troppo azzardata. Ci ha costretti a farla il coronavirus. E ora a noi non resta che fare del nostro meglio per vincerla.

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