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Divo Barsotti – Cristiani nel mondo: laici, società, salvezza – Parte II

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I laici, la società, la salvezza del mondo: la prospettiva di Divo Barsotti

Il padre ci ha messo sempre in guardia sia dalla tentazione di ridurre il cristianesimo alla sola dimensione sociale, sia dal limitarci a farlo coincidere soltanto con la salvezza della nostra anima; pertanto riconosceva al Concilio Ecumenico vaticano II, l’importanza di avere sollecitato fortemente, in più occasioni, la dilatazione della vita cristiana al mondo intero ed a tutti gli ambiti della vita umana: la necessità di tale apertura don Divo l’ha sempre avvertita urgentemente e vissuta sin dall’inizio del suo cammino, prima del Concilio.

Dal ritiro di Viareggio del 16.1.1957:

Essere cattolici vuol dire sentirci fratelli di tutti, vuol dire non sentirci divisi da alcuno, capaci di comprendere, capaci di sentire e di apprezzare tutto quello che di bello, di buono e di santo vi è nella creazione, vi è nel mondo, vi è nella vita umana”. Se non si vive questa apertura, ci diceva il padre in quell’occasione, si finisce per vivere un Cristianesimo ottuso, chiuso, un Cristianesimo soffocante, un Cristianesimo rigido, un Cristianesimo morto, un Cattolicesimo  tutto fatto di regole che non ha respiro, che non ha vita”. A tal proposito, dieci anni prima, in una delle prime adunanze comunitarie a Firenze (28.9.1947), aveva presentato con estrema chiarezza la sua visione delle ragioni della deriva del cristianesimo contemporaneo: “Il mondo va in rovina, l’umanità corre un pericolo estremo: il cristiano consapevole non può non sentire gravare su di sé il peso, la responsabilità della salvezza del mondo. Perché Dio non vuole solo la salvezza dell’anima, ma la salvezza totale: della famiglia, della scuola, della cultura, della politica, della società, la salvezza di tutto l’uomo. È questo il compito della cristianità, ma di cui noi vogliamo avere una consapevolezza più netta. Tutto deve essere salvato, elevato, santificato, in ogni campo: ecco ciò che dobbiamo compiere pienamente. (…) Noi non escludiamo nessuna attività, perché, come abbiamo già detto altre volte, siamo ‘universali’.

Lumen Gentium

Riguardo alla Lumen Gentium, si consiglia la lettura almeno del capitolo IV di cui si riporta un brano tratto dal paragrafo 31: (…) Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a manifestare Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità. […]

La costituzione Lumen Gentium nel pensiero del padre don Divo

Il padre nel ritiro del 20/05/1965 che ha come titolo “Commento al quarto capitolo della Lumen Gentium”, inizia ponendo una domanda:

Qual è la funzione del laicato nella Chiesa di Dio? La vostra funzione? Che cosa voi siete? Ecco quello che si domanda e quello anche a cui risponde il Magistero ecclesiastico su questo argomento solenne dei laici nella Chiesa. Il primo paragrafo potrà essere sufficiente a introdurre il discorso, come è sufficiente a introdurre tutta la dottrina della stessa Costituzione:

“II Santo Concilio, dopo aver illustrati gli uffici della Gerarchia, con piacere rivolge il pensiero allo stato di quei fedeli che si chiamano laici. Sebbene quanto fu detto del Popolo di Dio sia ugualmente diretto ai laici, ai religiosi e al clero, ai laici tuttavia, sia uomini che donne, per la loro condizione e missione, appartengono in particolare alcune cose, i fondamenti delle quali, a motivo delle speciali circostanze del nostro tempo, devono essere più accuratamente ponderati. I sacri Pastori, infatti, sanno benissimo quanto contribuiscano i laici al bene di tutta la Chiesa. Sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione salvifica della Chiesa verso il mondo, ma che il loro eccelso ufficio è di pascere i fedeli e di riconoscere i loro ministeri e carismi, in modo che tutti concordemente cooperino, nella loro misura, al bene comune. Poiché bisogna che tutti «operando conforme a verità, andiamo in ogni modo crescendo in carità in Colui che è il Capo, Cristo; da Lui tutto il corpo, ben connesso e solidamente collegato, attraverso tutte le giunture di comunicazione secondo l’attività proporzionata a ciascun membro, opera il suo accrescimento e si va edificando nella carità» (Ef 4,15-16) (LG cap IV n.30).

Prima di tutto il documento dice che quanto è già stato detto riguardo al popolo di Dio riguarda ciascuno nella Chiesa, perché tutti fanno parte di questo popolo. Già questa è una dottrina molto importante, per la quale il gerarca non è al di fuori del corpo, ma è un membro del corpo, è un membro del popolo di Dio; se ha delle funzioni particolari nei confronti degli altri fedeli ha gli stessi doveri dei fedeli, in quanto precisamente membro di un unico corpo, in quanto membro di un unico popolo. C’è una piattaforma comune che unisce: la medesima fede, c’è una medesima legge che unisce: la carità. Nessuno di noi può dispensarsi dal credere, nessuno di noi può dispensarsi dall’amare. Non si deve pensare che, se il Vescovo è lo strumento del magistero, non sia anche soggetto al magistero medesimo. Quello che il Papa definisce, il Papa stesso deve credere, come ogni altro fedele.

La prima cosa dunque da considerare è l’unità di tutti nella fede e nella carità. È certo poi che, nella Chiesa, questa fede e questa carità debbono essere vissute secondo i vari ministeri e le varie funzioni che sono proprie di organi diversi. E la cosa fondamentale che ci insegna il primo paragrafo è che, pur essendovi una gerarchia, non vi è membro che sia puramente passivo. Ognuno è attivo e passivo, proprio perché ogni membro deve avere nell’organismo una sua particolare funzione.

Pensate a quello che è stato il laicato nella Chiesa fino ad oggi: il soggetto del potere ecclesiastico, ma privo come di ogni sua funzione. La Chiesa ai laici non domandava nulla tranne l’ubbidienza, non sembrava avere necessità di nulla da parte dei laici: essi ricevevano, ma che cosa davano alla Chiesa?

Ora la Costituzione non intende giustificare soltanto una collaborazione del laicato all’apostolato proprio del clero; questa collaborazione rimane sempre marginale alla vocazione laicale. Il laico deve avere una sua funzione specifica in seno alla Chiesa, che il clero non ha. È nell’essere laici che voi avete e che voi dovete realizzare la vostra funzione, la quale è altrettanto necessaria alla Chiesa quanto la funzione del sacerdozio.

Per chi deve tendere alla santità in quanto laico e vuole raggiungere la santità nella sua vita secolare, e pienamente secolare, questo è molto importante.

L’apostolato è proprio del sacerdozio, non è dunque nell’apostolato che il laico si fa santo, ma il laico si fa santo come laico: come avvocato in quanto è avvocato, come medico in quanto è medico, come spazzino in quanto è spazzino. L’essere spazzino o professore universitario non è soltanto un mezzo per esercitare un maggiore apostolato, affatto; sarebbe allora soltanto un pretesto la vocazione laicale, sarebbe un camuffamento di clericalismo. È nel vivere fino in fondo il tuo laicato che vivrai la tua santità, che realizzerai la tua vocazione cristiana. Di qui la necessità che il laico viva veramente nel mondo, sia veramente come lievito nella massa per vivere pienamente la sua vocazione di laico.

Ora la Chiesa riconosce che questi tempi sono venuti, riconosce che non deve più il clero supplire a un laicato ancora incapace di assolvere la propria missione. Ma mai il laicato assolverà la propria missione se non ha coscienza della propria dignità, se non ha coscienza nemmeno di quella che è la sua funzione propria in seno alla chiesa.

I valori terrestri è il laico che li introduce nella Chiesa, non il prete. Se i sacerdoti alcune volte possono occuparsi dei valori terrestri è perché il laicato non è cosciente della propria missione, non è maturo per assolverla, però in questa supplenza i sacerdoti non potranno mai sostituire il laicato. Infatti quando il laicato ha cessato di essere cosciente della propria funzione i valori mondani si sono separati dalla Chiesa. Tutto è divenuto profano e la Chiesa si è come separata dal mondo, è divenuta il regno del clero, è stata impossibilitata ad operare quella trasfigurazione, quella riconsacrazione del mondo che è funzione importantissima della Chiesa, perché nella Chiesa continua la missione redentrice del Cristo, e la redenzione del Cristo è redenzione universale. Egli è salvatore non soltanto delle anime, Egli è salvatore del mondo. Se questa salvezza deve essere salvezza di tutti i valori, questa salvezza non può essere operata soltanto dal clero, ma da tutto il corpo della Chiesa: dal Papa come dallo spazzino. È il Cristo che continua la sua missione e dobbiamo renderci conto che tutti serviamo a questa opera di redenzione universale.

Se noi vogliamo veramente il rinnovamento della Chiesa, questo rinnovamento non si farà soltanto con dei grandi Papi o con dei grandi Vescovi, ma si farà con un laicato di nuovo consapevole delle proprie funzioni, della propria dignità. Un risveglio della coscienza sociale e politica in seno al laicato cattolico è una premessa per un rinnovamento vero anche della Chiesa. Per questo la Chiesa non può rinunciare a dei laici che abbiano questa consapevolezza, che vogliano veramente vivere una loro funzione e assumere una loro responsabilità. Quando il laicato non ha avuto più questa coscienza è avvenuto il divorzio tra la Chiesa e il mondo: le attività della Chiesa hanno conservato una loro vita ma come sotto la cenere, e le attività umane, scisse dall’attività suprema della Chiesa, hanno portato l’uomo alla dispersione, fuori dal suo centro; queste attività tendono alla loro specializzazione, si separano non soltanto dalla teologia, ma anche tra loro: avviene la torre di Babel.

Gaudium et Spes

Dal capitolo IV “La missione della Chiesa nel mondo contemporaneo” riportiamo alcuni brani tratti dal paragrafo 43 “L’aiuto che la Chiesa intende dare all’attività umana per mezzo dei cristiani”:

“Il Concilio esorta i cristiani, cittadini dell’una e dell’altra città, di sforzarsi di compiere fedelmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo spirito del Vangelo. […]

Non si crei perciò un’opposizione artificiale tra le attività professionali e sociali da una parte, e la vita religiosa dall’altra. Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in pericolo la propria salvezza eterna. […] I laici, che hanno responsabilità attive dentro tutta la vita della Chiesa, non solo son tenuti a procurare l’animazione del mondo con lo spirito cristiano, ma sono chiamati anche ad essere testimoni di Cristo in ogni circostanza e anche in mezzo alla comunità umana. […]

Ultimo dei documenti conciliari, pone in luce la perenne ricerca umana del significato: la nostra origine, lo scopo della vita, la presenza del peccato e della sofferenza, l’inevitabilità della morte, il mistero dell’esistenza, tutte domande che non si possono eludere (cf GS, 4, 10, 21, 41). In ogni tempo e luogo tali interrogativi sollecitano il cuore umano e lo spingono a cercare una risposta piena e definitiva. E tutto ciò non può essere svelato secondo il documento conciliare se non alla luce del Cristo crocifisso e risorto, il quale è «la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana» (GS,10). Per la prima volta nella storia bimillenaria della Chiesa un concilio ecumenico esprime un tale profondo coinvolgimento ed una tale preoccupazione pastorale per le vicende temporali dell’umanità.

Gaudium et Spes nel pensiero del padre don Divo

Nel corso di esercizi svoltisi a Venezia nel 1973 sul tema “Crisi e superamento” il padre dice a proposito di questa Costituzione:

(…) dobbiamo vedere qual è la direttiva e l’insegnamento fondamentale che ci dona la Chiesa attraverso questo documento. Mi sembra di poterlo dire con molta semplicità: è il dialogo ecumenico della Chiesa, è il rapporto cioè che la Chiesa ha col mondo.

La dimensione del Cristianesimo è la dimensione stessa di Dio che tutto abbraccia, tutto solleva e tutto trasforma. A questo c’impegna oggi la chiesa. Anche la nostra Comunità deve sentire questo spirito. Guai se noi ci rifugiassimo in una vita soltanto interiore! Non vivremmo il Concilio, non ascolteremmo Dio, che attraverso il Concilio, vuole che prima di tutto riconosciamo il primato delle virtù contemplative e il valore della preghiera; ma una volta uniti con Dio, dobbiamo sentirci impegnati anche ad essere lo strumento di un rinnovamento universale per la pace del mondo, per la concordia dei popoli, per la giustizia sociale, per tutti questi problemi che, pur essendo marginali, non possono mai essere esclusi dalla responsabilità del cristiano.

(…) “Gaudium et spes” ha un grande valore, dobbiamo dire che è una grande affermazione che la Chiesa finalmente prenda coscienza di una sua responsabilità universale; non la Chiesa in astratto, la chiesa in tutti i suoi membri, perché tutti i suoi membri sentono ora che non possono essere cristiani se non sono anche degli uomini i quali non si sottraggono a nessuna attività, a nessun problema, ma in tutto s’impegnano, per tutto condurre a Dio. È riconducendo tutto a Dio che l’uomo realmente si salva; fin tanto che rimane diviso l’uomo interiore dall’uomo esteriore, l’uomo sociale dall’uomo dell’eternità: il Cristianesimo, invece di salvare, divide. La salvezza si può compiere soltanto nell’unità in quanto Dio, che trascende ogni valore, deve assumere tutto: non solo i valori nazionali delle tradizioni spirituali delle varie religioni, ma tutte le attività dell’uomo. Questo anzi s’impone più delle religioni, perché fin tanto che non assume tutto l’uomo che vive qui in Italia, come potrebbe assumere le tradizioni spirituali degli altri popoli? Più nulla sia in te che non sia cristiano: ecco quello che ci chiede la “Gaudium et spes”.

Il ruolo della virtù della carità

Concludiamo con questa esortazione di don Barsotti del 6 gennaio 1956 (meditazione sulla carità):

Dobbiamo sentire il peso, il dolore, la pena di tutti. Avvertire anche i loro peccati, il peso della loro miseria morale, per assumerne la responsabilità noi, per risponderne noi. Io devo sentire tutto questo. È una cosa molto importante perché altrimenti mi chiudo in me stesso, è questa la morale della carità. Non basta trovarsi bene con chi si conosce e con cui si possono fare bei discorsi, no. Occorre essere spezzati, rovinati dalla carità divina; rompere tutti i limiti, sapersi superare continuamente nelle chiusure proprie dell’egoismo umano. Dall’egoismo in cui ci si restringe uno per uno si passa all’egoismo familiare, all’egoismo di comunità, senza andare oltre.

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