Questa rubrica vuole porre all’attenzione dei lettori di Tuttavia la capacità della poesia e delle arti figurative di rappresentare l’immaginario delle varie epoche storiche e delle stagioni culturali che si sono succedute nel nostro Occidente a partire dal Basso Medioevo, cioè da quando si è andata costruendo la civiltà delle città e del ceto medio che in esse si è andato affermando. Abbiamo definito pittura e poesia “linguaggi dell’anima” per la loro capacità di coinvolgere in modo integrale chi ne fruisce, ovvero in modo da mobilitare, oltre alla dimensione razionale del comprendere, anche gli aspetti affettivi, emotivi e volitivi dell’esistenza.
A tale scopo saranno sottoposti quindicinalmente dei testi poetici e iconici paralleli, reinterpretati quali “oggetti culturali” per la loro capacità di esemplificare l’immaginario di un’epoca. Alla poesia e alla pittura potrà affiancarsi anche la musica, quando gli autori riterranno di proporre qualche fonte musicale, coeva oppure a noi contemporanea, capace di evocare efficacemente lo spirito dell’epoca trattata. Il parallelismo potrà anche strizzare l’occhio agli insegnanti – quali sono i due autori – che volessero istituire nessi più stringenti tra i vari linguaggi, nella convinzione che i ragazzi amano le contaminazioni e soprattutto si lasciano coinvolgere volentieri nello spazio della creatività e dell’interpretazione.
L’arte e la poesia del secondo Novecento di fronte al mondo che cambia
Poesia e arti figurative testimoniano il progressivo esaurirsi della funzione tradizionalmente assegnata alla poesia, cui si attribuiva il potere di dare voce ai moti più profondi dell’anima e di contribuire alla costruzione di mondo migliore. Molte voci, nel corso del Novecento, si levano a denunciare il soccombere dell’arte di fronte alle dinamiche consumistiche, sempre più attive a partire dal secondo dopoguerra. Qui offriamo i contributi di Piero Manzoni, con la sua Linea lunga 7200 del 1960, e del contemporaneo Franco Fortini, con una sua poesia degli anni Novanta, Lontano Lontano.
Franco Fortini: Lontano lontano (1994)
Lontano lontano si fanno la guerra.
Il sangue degli altri si sparge per terra.Io questa mattina mi sono ferito
a un gambo di rosa, pungendomi un dito.Succhiando quel dito, pensavo alla guerra.
Oh povera gente, che triste è la terra!Non posso giovare, non posso parlare,
non posso partire per cielo o per mare.E se anche potessi, o genti indifese,
ho l’arabo nullo! Ho scarso l’inglese!Potrei sotto il capo dei corpi riversi
posare un mio fitto volume di versi?Non credo. Cessiamo la mesta ironia.
Mettiamo una maglia, che il sole va via.Si allude alla Guerra del Golfo nel 1991. Avviene lontano e riguarda gli “altri”, che si osservano dalla tv. “Altro” è anche il sangue di chi si punge con la rosa in contesto protetto. Questo sangue fa pensare all’altro sangue e induce riflessioni banali sulla “povera gente” che va in guerra.
Il poeta dichiara la sua estraneità impotente rispetto al tragico della storia. Egli non può fare nulla per quelle “genti indifese” con cui non potrebbe neppure comunicare in lingua, e men che meno potrebbe mettere sotto la testa dei cadaveri il suo libro di versi.
A questo punto si può solo mettere fine alla triste ironia e accettare il buio che incombe.
Franco Fortini è uno dei più importanti poeti del Novecento, per quanto non noto al grande pubblico quanto i più “scolastici” Montale, Ungaretti, Quasimodo. Con una sua poesia si conclude questa carrellata di poeti iniziata col Cantico di Frate Sole di Francesco d’Assisi, che inaugurò la letteratura italiana agli inizi del Duecento. Il testo fa parte dell’ultima raccolta di poesie pubblicata da Fortini nell’anno della sua morte, il 1994. Lo stesso titolo della raccolta, Composita solvantur (“Ciò che è unito si dissolve”) evoca chiaramente l’orizzonte esistenziale del poeta, che sente ormai prossima la sua fine. In realtà questi versi rappresentano anche un’ altra “fine”, preannunciata variamente da altri poeti nei decenni precedenti (cominciò Montale col suo Non chiederci la parola), ovvero proprio la fine della poesia, se per fine dobbiamo intendere l’impossibilità, per essa, di avere un qualsiasi ruolo nella storia.
Il testo trae spunto dalla Guerra del Golfo scatenata dagli Stati Uniti contro l’Iraq di Saddam Hussein nel 1991, che come si ricorderà fu una guerra, forse la prima, molto mediatica, osservata da lontano (appunto: lontano lontano) come se fosse un videogioco. Il sangue dei morti in guerra ha un ironico contraltare nel sangue che sgorga dal dito del poeta che si punge toccando il gambo di una rosa, un sangue che lo fa pensare alla guerra degli “altri” e che gli fa formulare il tipico pensiero dell’uomo della strada: oh povera gente, che triste è la terra! La lontananza che si legga alla banalità del sentire.
Dal quarto distico il poeta dichiara la sua impotenza di fronte alla tragedia della storia: egli non può fare nulla, né giovare, né parlare né partire (si pensi che Fortini, antifascista e poi militante marxista, partecipò alla seconda guerra mondiale). L’ironia si appunta anche alle sue carenze nell’arabo e nell’inglese, che servirebbero per comunicare con gli attori di quella guerra. Neppure la poesia ha alcuna possibilità di portare un contributo qualsiasi: potrei mettere sotto la testa dei cadaveri un mio volume di versi? Non credo, risponde rassegnato il poeta, che invita ad andare via, forse con un riferimento alla celebre Bandiera bianca di Battiato in quel “mettiamo una maglia”.
Appunto, il sole va via, e lascia nell’oscurità non solo i morti in guerra, ma anche qualsiasi possibilità che l’intellettuale possa dire o fare qualcosa per portare un beneficio qualsiasi, ancor più se il suo essere intellettuale si manifesta col linguaggio poetico, ormai travolto dall’efficacia di ben altri linguaggi, alla metà degli anni Novanta del Novecento.
L’ironia attraversa questi sette distici con quel cantilenare banalizzante, che vuole probabilmente indicare il ridicolo della Storia, guardata in lontananza da chi può soltanto balbettare commenti scontati, senza alcuna possibilità di incidere. La poesia finisce per rappresentare l’impoetica rassegnazione di fronte al dilagare della tristezza (la mesta ironia), dal momento che della poesia né i morti né i vivi ormai sanno che farsene. La poesia, che per secoli aveva rappresentato il luogo dell’umanizzazione e dell’affermazione della vita (si pensi ai Sepolcri di Foscolo), qui dichiara il suo stesso de profundis, la sua irrilevanza in ordine ai grandi scenari della storia.
Sarà pur sempre linguaggio dell’anima, ma forse l’anima umana è distratta da altro.
Dal web: Moni Ovadia legge poesie di Franco Fortini
Manzoni il dissacratore
“…Alla realtà parziale del quotidiano Manzoni risponde con la totalità relativa dell’opera, che ha ormai perduto tutte le proprie allusioni ai traumi dell’esistenza ed ha invece acquistato un suo splendente superficialismo” (Bonito Oliva)
Piero Manzoni (1933-1963) fa parte del Nouveau Réalisme, movimento che esprime la “singolarità collettiva” di artisti fuori da ogni norma, e che è considerato la risposta europea al New Dada. In Italia si sono mossi in questo contesto artisti come Mimmo Rotella, recentemente scomparso, ed Ettore Colla. Si tratta di un artista non etichettabile, come non è facilmente etichettabile l’arte dopo le avanguardie. L’arte infatti è oggi qualcosa di sempre più inafferrabile, qualcosa che sempre più sfugge al nostro tentativo di determinarne i confini. Ma la questione della morte dell’arte, nella sua pluralità di senso, non riguarda solo i tempi recenti. Da Hegel in poi infatti non si contano le riflessioni sull’argomento: alla fine della seconda guerra mondiale Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno, che si sarebbe però poi ricreduto, scrisse che dopo il lager di Auschwitz la poesia era finita e non si poteva più creare, in quanto incapace di riscattare l’essere umano dal male generato, di ignorarlo o sopprimerlo. Lo stesso Fortini ne I problemi di Ulisse scrive: “L’avanguardia tende alla morte dell’arte, distruggendo la comunicazione (pseudo-afasie, linguaggi criptici) o identificandola con qualsiasi atto pratico; sostituendo il comportamento all’opera; esaltando i prodotti culturali di massa o il kitsch”. Il filosofo spagnolo Ortega y Gasset (1883-1955) ne La disumanizzazione dell’arte (1925) sottolinea come quel carattere regolativo ed euristico dell’arte del passato, che talvolta “pretendeva perfino di condurre a salvamento la sorte umana”, non paresse più essere una componente propria dell’arte dell’ultimo secolo e trovasse nell’ironia l’unica salvezza possibile.
L’opera di Manzoni, con la presenza di una forte componente ironica, sembra far emergere proprio ciò che Ortega avvertiva nelle avanguardie storiche e che poi avrebbe caratterizzato molte correnti artistiche successive, e cioè la dissoluzione dell’“aura” di sacralità propria dell’opera d’arte, affermando contemporaneamente l’individualismo dell’artista e della sua opera. In quella che nel 1947 Theodor Adorno definì come “industria culturale”, l’arte poteva però ancora avere la funzione essenziale di ribellarsi al suo essere stata ridotta a bene di consumo, diventando caricatura e negazione di se stessa, non nel senso di scomparire, ma nel senso di dare voce alla vita offesa ammutolendo.
In questo ‘non poter dire nulla’ vedo l’analogia con lo spirito poetico dei versi di Fortini. Manzoni capisce che l’arte ha ancora una dimensione da esplorare e alla dimensione finita della tela contrappone le sue linee che corrono lungo l’infinito. e all’unicità dell’opera vista come unicum risponde con la serialità. Nel 1960 realizza una linea lunga 7200 metri, conservata in un cilindro di zinco piombato. Doveva essere la prima di una serie di linee che sommate avrebbero dato la misura del perimetro terrestre, e forse oltre. Dice: “All’inizio del ’59 ho eseguito le mie prime linee, prima più corte, poi sempre più lunghe (metri 19,11, metri 33,63, metri 1000 ecc…): la più lunga che io abbia eseguito finora è di 7.200 metri (1960, Herning, Danimarca). Tutte queste linee sono chiuse in scatole sigillate”. Nelle sue opere c’è più che la critica all’ambiente del mercato, ed una visione del mondo ancora più amara e drammatica di quella che ci propone la Pop Art, nella quale si denuncia la capacità spregiudicata di sfruttare le debolezze di un mondo ‘conformista’ disposto a comprare e consumare. In Manzoni c’è in più un senso di impotenza e sfiducia: “non si tratta di formare, non si tratta di articolar messaggi (né si può ricorrere a interventi estranei, quali macchinosità parascientifiche, intimismi da psicanalisi, composizioni da grafica, fantasie etnografiche ecc… ogni disciplina ha in sé i suoi elementi di soluzione); non sono forse espressione, fantasismo, astrazione, vuote finzioni? Non c’è nulla da dire: c’è solo da essere, c’è solo da vivere”.
IN MUSICA: Bandiera bianca di Franco Battiato
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