
Gli insediamenti illegali in Cisgiordania
Non ha sorpreso l’annuncio del ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich, che è anche responsabile della gestione civile in Cisgiordania, di aver approvato un nuovo piano di insediamento che prevede la costruzione di 3.400 unità abitative per i coloni.
La sua realizzazione, ha spiegato con soddisfazione Smotrich, dividerà in due il territorio originariamente destinato, secondo la risoluzione dell’ONU del 1947, ad una entità politica parallela a quella ebraica, e così «seppellirà l’idea di uno Stato palestinese», proprio mentre ormai un numero crescente di paesi occidentali dichiara di avere intenzione finalmente, di riconoscerlo. È chiaro che la mossa dl governo di Tel Aviv è una risposta a queste prese di posizione.
Del resto, già il 29 maggio Israele aveva varato la creazione di ventidue nuovi insediamenti ebraici in quelli che anticamente erano la Giudea e la Samaria – oggi Cisgiordania – , con una decisione che lo stesso Smotrich aveva definito «storica».
Ma anche subito prima e subito dopo il 7 ottobre, altri insediamenti erano stati creati, a spese degli abitanti arabi del territorio, cacciati dalle loro case. La più frequente delle strategie utilizzate dalle istituzioni israeliane per occupare questi terreni, facendo evacuare i villaggi e spianando le case con i bulldozer, è la loro trasformazione in aree di addestramento per l’esercito israeliano.
Il documentario No Other Land, premio Oscar del 2025 – i cui registi sono un arabo e un israeliano – narra il caso di Masafer Yatta, un gruppo di villaggi nel sud della Cisgiordania a cui è stata riservata questa sorte.
Infine, in Cisgiordania, i coloni e le autorità israeliane utilizzano anche il controllo dell’acqua come un’arma. Oggi, Israele controlla circa l’80% delle riserve idriche della regione e l’estrazione di acqua da qualsiasi nuova fonte richiede i permessi del governo israeliano, quasi impossibili da ottenere.
La compente religiosa
Questo processo, con fasi alterne, dura dal 1967, a partire dalla strepitosa vittoria israeliana nella guerra dei Sei giorni. Una storica ebrea, Anna Foa, nel suo recente libro «Il suicidio di Israele», scrive che da questo momento «il sionismo subiva una vera e propria metamorfosi e si diffondeva un diverso tipo di israeliano, un sionista religioso aggressivo e ispirato da Dio a colonizzare tutta la terra di Israele.
Sebbene al governo fossero i laburisti, a partire dal 1967 iniziava nella West Bank occupata il fenomeno degli insediamenti da parte dei gruppi estremisti messianici».
Significativo che due anni dopo, nel 2018, sia stata introdotta la Legge Fondamentale su Israele Stato-Nazione del popolo ebraico, di cui un paragrafo recita: «Lo Stato considera lo sviluppo dell’insediamento ebraico come un valore nazionale, e agirà per incoraggiare e promuovere il suo sviluppo e consolidamento».
Ed è nella logica del sionismo messianico che queste operazioni di conquista sono state e continuano ad essere compiute. Alla radice remota ci sono le parole di Ben Gurion, venerato in Israele come il “padre della patria”, il quale, contestando il concetto stesso di “Mandato britannico per la Palestina”, istituito dopo la Prima guerra mondiale, aveva dichiarato: «A nome degli ebrei, dico che la Bibbia è il nostro Mandato, la Bibbia che è stata scritta da noi, nella nostra lingua, in ebraico, proprio in questo Paese. Questo è il nostro Mandato. Il nostro diritto è antico quanto il popolo ebraico».
Ben Gurion non era un ebreo religioso, ma la Bibbia era il suo punto di riferimento e in particolare considerava il libro di Giosuè il modello storico per la conquista della Terra da parte del popolo ebraico, allora come adesso. Egli, scrive Anna Foa, era un «laico convinto», ed era persuaso che la religione si sarebbe presto estinta.
«In realtà è successo il contrario. I sionisti religiosi, fanatici della grande Israele data da Dio al popolo ebraico, si sono moltiplicati grazie al gran numero di figli, così come si sono moltiplicati gli ultra-ortodossi».
Non a caso, in queste occupazioni, si registrano come un dato costante le violenze di coloni fanatici che si lanciano contro i residenti accusando loro, che ci vivono da secoli, gli occupanti abusivi, rivendicando la loro proprietà della “terra promessa” data da Dio ai loro avi.
L’attività di occupazione israeliana è stata più volte condannata come illegale e contraria al diritto internazionale dalle Nazioni Unite, ma né il governo di Tel Aviv né i paesi occidentali hanno mai appoggiato queste denunzie, anzi il 18 novembre il segretario di stato nel primo governo Trump, Mike Pompeo, ha dichiarato che gli insediamenti israeliani in Cisgiordania non violano il diritto internazionale.
La Cisgiordania non è Gaza
Le vicende della Cisgiordania (o West Bank, come anche viene comunemente chiamata) solo ora stanno cominciando a venire in piena luce. Finora tutta l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale si è concentrata sulla guerra nella Striscia di Gaza e sulla reazione di Israele all’attacco del 7 ottobre.
Il punto è che con Hamas e con quell’attacco i palestinesi della Cisgiordania non hanno nulla a che fare, perché il territorio sarebbe se mai sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese, gestita dall’OLP, in rottura radicale con Hamas – tra le due organizzazioni c’è stata addirittura uno scontro armato – e che, a differenza di Hamas, ha da tempo riconosciuto lo Stato ebraico.
Molti, pur perplessi di fronte alla reazione israeliana al 7 ottobre, si sono chiesti che cosa avrebbe potuto fare di diverso il governo di Tel Aviv. A dare una valutazione critiche risponde a questa domanda è Anna Foa, che racconta: «Invece di tirare dalla sua parte i palestinesi della West Bank e di prospettare la creazione dello Stato, mossa che avrebbe potuto dividerli da Hamas, il governo appoggiava le aggressioni contro i palestinesi (…) nei territori dell’autorità Palestinese».
In realtà, spiega la Foa, a Israele non interessava affatto rafforzare il suo rapporto con quella parte del popolo palestinese a cui non poteva rimproverare di volerlo distruggere e che quindi avrebbe avuto le carte in regola per formare uno Stato palestinese. Paradossalmente, il suo fine era lo stesso di quello di Hamas: «sabotare la soluzione dei due Stati».
È in questa logica che lo Stato ebraico ha sempre cercato di impedire la sostituzione, al vertice dell’Autorità Palestinese, del vecchissimo e corrotto Abu Mazen, tenendo in carcere – anzi gli ultimi due anni in isolamento – Marwan Barghouti, un leader della lotta per l’indipendenza della Palestina che non fa parte di Hamas ed èmolto popolare tra i palestinesi, al punto da essere da molti considerato un potenziale successore di Abu Mazen.
I palestinesi chiedono da tempo la sua liberazione, ma Israele si è sempre opposta e, proprio in questi giorni, ha fatto circolare un video dove viene contestato e deriso, nella sua cella, da Ben Gwir, che insieme a Smotrich rappresenta l’ala estremista del governo di Netanyahu.
La moglie di Barghouti, Fadwa, che guida una campagna internazionale per ottenere è il suo rilascio, ha dichiarato di non riuscire a riconoscere il marito nel video. «Forse una parte di me non vuole ammettere tutto ciò che il tuo viso e il tuo corpo esprimono, e ciò che tu e gli altri prigionieri state sopportando» ha detto. Drammatico parallelismo con quello che dicono i parenti degli ostaggi di Hamas davanti ai video dei loro cari.
La smentita di una narrazione
Tutto questo getta un’ombra pesante sulla narrazione del governo israeliano, accettata e difesa da tutti suoi sostenitori, dopo il 7 ottobre, per giustificare la sua politica verso i palestinesi.
Le occupazioni e le violenze dei coloni, sostenuti dall’esercito, non possono essere in alcun modo giustificate con il mantra «Israele ha il diritto di difendersi», che ha a lungo coperto i massacri di civili nella Striscia. Neppure ha posto il motivo della vendetta. Nella West Bank non ci sono terroristi, responsabili della strage di ebrei, che si fanno scudo dei civili e, se questi vengono aggrediti e uccisi, non è certo per difendersi o vendicarsi. È per cacciarli o distruggerli e prendersi la loro terra.
È guardando ai palestinesi della Cisgiordania che trova una irrefutabile conferma l’accusa di un genocidio, sia pure finalizzato alla pulizia etnica, rivolta sempre più frequentemente ad Israele a proposito della guerra di Gaza.
Siamo davanti a un evidente progetto di sostituzione etnica che non riguarda in alcun modo la sopravvivenza di Israele, ma minaccia piuttosto quella degli altri.
Appaiono del tutto unilaterali e fuorvianti, in questo quadro, gli inviti di Noemi Di Segni presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, che, nel gennaio 2024 – mentre già erano evidenti sia la spietatezza dell’offensiva nella Striscia sia la politica di conquista nella Cisgiordania – chiedeva accoratamente di «far cessare gli appelli umanitari diretti unicamente verso Israele, un paese che agisce secondo morale e non si è sottratto alle norme internazionali», bollando le critiche nei suoi confronti come un chiaro rigurgito di «antisemitismo», frutto «dell’ignoranza e dell’ottusità dilagante».
Come appaiono inaccettabili i silenzi e la complicità dei governi “democratici”, che hanno per anni assistito, senza battere ciglio, a questa progressiva realizzazione di un progetto ispirato ad un sionismo messianico e fanatico, e che tutt’ora esitano nel sospendere il loro appoggio politico e militare ad Israele.
Il rischio è che, a causa di questa colpevole inerzia, il progetto che sale a Ben Gurion sia ormai troppo avanti per essere fermato e che, con l’azione congiunta a Gaza e nella West Bank, si realizzi davvero, sulla pelle dei palestinesi, il Grande Israele, che, a questo punto nessuno potrà più essere rimesso in questione.
Anna Foa, racconta di un filosofo ebreo, Yeshayahu Leibowitz, detto «la coscienza di Israele» e vincitore nel 1993 del prestigioso Premio Israele, da lui rifiutato, il quale «negava ogni diritto divino degli ebrei alla terra di Israele e sosteneva che l’occupazione avrebbe avvelenato l’animo degli israeliani trasformandoli in “giudeo-nazisti”». Forse siamo assistendo, grazie ai nostri governi, alla nascita del primo Stato democratico-giudeo-nazista della storia.
Purtroppo è così
Barghuti è accusato di avere promosso azioni suicide nei confronti di cittadini di Israele, quindi di terrorismo. Non conoscendo i fatti al di là delle accuse, condivido tuttavia lo sdegno per l’umiliaxione che gli è stata inflitta dai due ministri estremisti israeliani, ma credo altresì che saggezza consigli prudenza di giudizio sul personaggio
Ben Gwir non è solo accusato, ma reo confesso (e fiero) di pulizia etnica se non addirittura – secondo Gossmann e tanti altri ebrei – di genocidio. La condanna per crimini contro l’umanità da parte della Corte Penale Internazionale moralmente vale non solo per Netaniahu, ma per lui e gli altri estremisti che hanno voluto ciò che sta accadendo. E questo non impedisce che gli si riconosca il diritto di stare al governo. Se Barghuti è veramente un criminale, non c’ è motivo che lui stia in cella e Ben Gwir no.
Sempre profondamente addolorata da tanta implicita ed esplicita volontà di presentare una realtà fuorviata che finiamo con il lasciarla passare per vera. Io condanno l’orribile nuovo sionismo di Israele
La decisione ONU del 1947 andava eseguita senza ritardi: disastroso averla disattesa… Occorrerebbe oggi un consenso internazionale analogo, ma se ne potranno creare (o: ricreare) le premesse?