Il volto dell’altro e le politiche verso i migranti

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Foto di Nitish Meena su Unsplash

La criminalizzazione dei migranti irregolari negli Stati Uniti

Il tema dei migranti irregolari domina in questi giorni le cronache per i contraccolpi che esso sta avendo negli Stati Uniti. Nella sua campagna elettorale, Donald Trump aveva sostenuto che i paesi confinanti avevano mandato i loro assassini negli Stati Uniti.

«Per questo,» – aveva dichiarato – «per tenere al sicuro le famiglie, prometto la più grande deportazione della storia del nostro paese». E sta mantenendo la parola data.

L’impegno si è subito profilato arduo, perché ad oggi si stima che i clandestini a espellere siano oltre 11 milioni. E molti di loro sono ormai inseriti nel tessuto sociale ed economico americano, rendendo estremamente doloroso il taglio netto che il nuovo presidente vuole attuare. Da qui i disordini che si stanno verificando, cominciando dalla California, in diversi Stati.

Il primo problema da risolvere per gli espatri forzati è di trovare dove inviare le persone espatriate. Trump lo sta risolvendo, con la consueta risolutezza, in vari modi. A marzo – sulla base di un accordo col presidente di El Salvador, Bukele, suo grande ammiratore, oltre che il più accondiscendente dei leader nella regione – ha deportato nel paese sudamericano 238 presunti membri della gang venezuelana Tren de Aragua, designata dagli USA come organizzazione terroristica.

Resteranno rinchiusi per un anno (rinnovabile) nel Centro di confinamento del terrorismo (CECOT), un famigerato carcere di massima sicurezza. Lo ha fatto senza concedere loro un colloquio per l’asilo o un’udienza nei tribunali per l’immigrazione, avvalendosi di una legge risalente al 1798, l’Alien Enemies Act, che consente al governo di arrestare, detenere e deportare, clandestini di età superiore ai 14 anni provenienti da paesi che minacciano «un’invasione o incursione predatoria» nei confronti degli Stati Uniti.

In quest’occasione il presidente americano ha postato sul suo social network «Truth» un video shock dove si mostrano quelli che lui chiama «i mostri», mentre, con le mani e le caviglie incatenate, sono spinti fuori da un aereo, fatti salire su un convoglio di bus sorvegliato da agenti antisommossa, e poi rasati, in ginocchio, prima di indossare una divisa bianca e condotti nelle celle piegati a 90 gradi.

In realtà di nessuno dei deportati è stata dimostrata in alcun modo l’appartenenza alla banda criminale in questione. Di uno, anzi, Abrego García, cittadino salvadoregno residente legale nel Maryland, è emersa subito la completa estraneità alle accuse rivoltegli, tanto da indurre la Corte suprema degli Stati Uniti a ordinarne il rientro.

Ma la Casa Bianca ha ribadito che Abrego García non sarà autorizzato a tornare negli Stati Uniti, nonostante l’ordinanza della Corte Suprema e pur avendo le autorità per l’immigrazione ammesso di aver commesso un errore deportandolo.

Un altro intervento per espellere i migranti dal territorio statunitense  –  comunicato in questi giorni – è il loro trasferimento nel tristemente celebre carcere di Guantanamo, finora riservato ai sospetti terroristi, creato dall’amministrazione americana su territorio cubano per sottrarsi alle regole che in patria avrebbero limitato le violazioni dei diritti umani.

Si parla di ben 9.000 immigrati, originari di vari paesi, tra  cui, secondo il «Washington Post», due italiani. Anche se per questi è subito intervenuto il nostro ministro degli Esteri, Tajani, assicurando che non finiranno mai a Guantanamo.

Dei colloqui sono in corso, intanto, con il governo del Rwanda che, in cambio di vantaggi economici consistenti – è uno dei paesi più poveri dell’Africa – è disposto ad accogliere i clandestini espulsi dagli Stati Uniti. E si parla anche di un progetto analogo riguardante la Libia.

Senza contare i clandestini rimandati nei loro paesi di origine: 80 in Guatemala, 88 in Brasile, 201 in Colombia, 104 in India. E anche in questi trasferimenti, a colpire sono state le condizioni disumane in cui queste persone – che, lo si ricordi, non  hanno mai fatto male a nessuno e che vengono considerate criminali solo perché, alla ricerca di una vita migliore, hanno violato le leggi sull’immigrazione – sono state costrette a viaggiare, ammanettate e incatenate.

Non si tratta di un errore. Già all’indomani del suo insediamento, Trump ha volutamente amplificato l’effetto mediatico della sua prima espulsione pubblicando la foto che mostra una fila di migranti guatemaltechi ammanettati e in catene mentre venivano scortati su un aereo cargo militare. Il post era accompagnato dalla scritta «I voli di deportazione sono iniziati. Promessa fatta, promessa mantenuta». L’umiliazione di persone come strumento di propaganda.

La politica migratoria come copertura

È stato osservato che per Trump la politica verso i migranti costituisce una priorità assoluta e che sta puntando su di essa per nascondere gli effetti disastrosi degli altri fronti della sua politica.

Le promesse fatte nel corso della campagna elettorale sulla rapida conclusione delle due guerre in corso, in Ucraina e a Gaza – sono state clamorosamente smentite. L’«età dell’oro» per l’economica americana, che sarebbe dovuta cominciare il giorno stesso del suo insediamento, per ora si è tradotta in una imprevista, brusca recessione.

E i sondaggi dicono che il l’indice di gradimento di Trump è il più basso tra tutti i presidenti neoeletti degli ultimi settant’anni. Il pugno duro contro i migranti sembra l’unico appiglio per rassicurare i suoi sostenitori che le promesse elettorali sono effettivamente ancora valide.

Qualcosa di simile, peraltro, sta accadendo in Italia. La premer Meloni era andata al governo promettendo che avrebbe ridato all’Italia un prestigio internazionale che, a suo avviso, aveva perduto. L’elezione di Trump, a cui la legava un’affinità ideologica, aveva creato l’illusione che questa promessa stesse per realizzarsi.

La nostra presidente del Consiglio fin dall’inizio aveva assunto l’atteggiamento di chi intendeva porsi come “ponte” fra le due sponde dell’Atlantico, rifiutando di allinearsi alle posizioni critiche degli altri governi europei e ribadendo la sua fiducia nella linea del presidente americano.

L’esplosione del problema dei dazi sembrava l’occasione storica per l’esplicazione di questo ruolo. Nel viaggio di metà aprile a Washington la Meloni, forte della propria dichiarata appartenenza allo stesso fronte conservatore del presidente americano, si era presentata come portavoce dell’UE.

Il dispiegamento di lodi e complimenti, nei suoi confronti da parte di Trump, i sorrisi reciproci, qualche vaga promessa, avevano giustificato le trionfali dichiarazioni della nostra premier, all’indomani, circa un rapporto privilegiato di cui era orgogliosa e il tripudio dei giornali di destra che esaltavano la sua centralità sulla scena internazionale.

Anche se l’opposizione e qualche attento osservatore, in Italia, avevano osservato che alla fine era stato il governo italiano a portare agli USA investimenti e denaro, per acquisti di gas e di armi, senza riceverne in cambio nulla.

Poi è andata come tutti sappiamo. Trump grandi complimenti li ha fatti a tutti i leader da cui ha ottenuto qualcosa e sui dazi, come su tutto il resto, ha seguito la propria strada, ignorando la Meloni. Che, a questo punto, si è trovata isolata e ha dovuto in fretta e furia rientrare, accettando un ruolo marginale, nel gruppo dei “volenterosi”, riavvicinandosi al suo rivale di sempre, il presidente francese Macron.

L’unico titolo che le è rimasto per vantare un centralità internazionale è, a questo punto, la politica migratoria, dato che il suo “protocollo Albania” – fallimentare finora per la sproporzione tra costi (enormi) e benefici (nulli) – ha avuto da parte dei paesi europei un ampio riconoscimento. 

Ed è vero che, a livello simbolico, esso incarna efficacemente il ripiegamento su se stessa di un’Europa smarrita e senza più ideali che non siano quelli legati alla propria autoconservazione – primo fra tutti la sicurezza –  , ripiegamento confermato dall’innalzamento ovunque di muri difensivi.

L’idea di tenere i migranti fuori dei propri confini, rispedendoli a casa loro senza che neppure abbiano potuto mettere piede sul nostro territorio, ha avuto un prezzo altissimo in termini economici (un qualunque CPR, in Italia, sarebbe costato immensamente di meno), ma è perfettamente rappresentativa di quella “difesa dei confini” che è al centro dei programmi di tutti i partiti di estrema destra, a comunciare da quello neo-nazista Alternative für Deutchland.

E non è un caso che anche i 40 migranti che sono sbarcati in Albania, prima di essere poi riportati in Italia, avessero i polsi ammanettati, come quelli deportati negli USA. Alle proteste il ministro degli Interni Piantedosi ha replicato che si tratta di una «normalissima pratica», anche perché tra gli stranieri sbarcati alcuni erano stati condannati per reati comuni. Senza spiegare, però, perché le manette fossero state imposte anche agli altri.

Ragionevole cautela o violenza che nasce dalla paura?

Ciò che colpisce, nella vicenda americana e in quella italiana – ma ormai tendenzialmente anche europea – , è che non si tratta solo di affrontare con ragionevole cautela un fenomeno migratorio che, privo di ogni controllo, risulterebbe disastroso per i nostri paesi sia dal punto di vista economico che da quello culturale. 

Su questo punto anche i sostenitori di una politica di accoglienza, come papa Francesco o, in Italia, la Cei, sono stati chiari, e solo una malevola distorsione della loro posizione ha potuto far credere che la loro richiesta fosse di una irragionevole apertura illimitata.

In realtà, il clima che negli Stati Uniti è evidenziato dal sostegno popolare alle politiche di espulsione di Trump, nel nostro paese, dal modesto risultato del recente referendum sulla cittadinanza degli stranieri, non è affatto di benevola, ragionevole prudenza, ma di paura e di violenta ripulsa.

Lo straniero è visto come un nemico e come tale viene considerato una minaccia o quanto meno un ingombro di cui disfarsi. Da qui l’esibizione compiaciuta della sua umiliazione e delle sue catene, funzionale a far dimenticare gli insuccessi in altri campi.

Vengono in mente, davanti a questo quadro, le riflessioni del filosofo ebreo francese Emmanuel Levinas, diventato famoso per avere messo al centro della esperienza umana la scoperta del «volto dell’altro», troppo spesso    misconosciuto e vilipeso nella società del denaro e del benessere. Per Levinas è il  volto altrui che ci permette di comprendere noi stessi e di uscire fuori dalla nostra angusta prospettiva autoreferenziale.  

Ciò a cui assistiamo oggi è la deriva della civiltà occidentale, che era nata nel medioevo dall’accoglienza dall’integrazione dei “barbari”, dei “diversi” – da cui è scaturita poi tutta la sua ricchezza – , verso una isterica chiusura che impedisce di guardare in faccia l’altro,  magari per coprire, con stupore, che è,  come noi, semplicemente un essere umano, con gioie e dolori simili ai nostri.

In questo abbandono del valore cristiano della fraternità e nell’apoteosi unilaterale di quello della propria sicurezza – e del sentimento corrispondente della paura – , è la nostra stessa civiltà che rischia di essere compromessa. Senza dire che prima o poi, come la storia ha ampiamente dimostrato, i muri sono destinati a crollare e chi li ha eretti rimane sotto le macerie.

2 replies on “Il volto dell’altro e le politiche verso i migranti”

  • Tralascio le considerazioni di carattere costituzionale che tornano opportune relativamente all’istituto del referendum. Mi soffermo sulla considerazione che buona parte degli elettori, globalmente individuabili come antigovernativi, hanno dato ragione ai nostri governanti nel non volere abbreviare i tempi per ottenere la cittadinanza da parte dei migranti. Cittadinanza che, ovviamente, non va regalata all’emigrante per il semplice fatto che si trovi sul nostro patrio suolo. Non c’è dubbio, quindi, che molti, anche non in linea con il Governo soffrano delle stesse preclusioni. Personalmente mi trovo a disagio come italiano tra italiani che, ancora prima delle posizioni politiche, non vogliano attrezzarsi mentalmente e socialmente nei confronti delle grandi realtà che abbiamo davanti. Se queste vengono affrontate con leggi asfittiche sarà come costruire muri da dovere supportare continuamente. Sarebbe, peraltro, da superficiali considerare il risultato maggioritario ottenuti tra i soli votanti come un veritiero ed esaustivo sondaggio dell’intera opinione pubblica. Tutto dipende, pure, dal tradizionale distratto andazzo che sperimentiamo nelle competizioni elettorali.

    • Un tema così importante come quello della concessione della cittadinanza va affrontato in sede parlamentare, non può essere oggetto di un referendum sul quale gioca molto l’emotività della gente.

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