Il mostro in prima pagina

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La riflessione mancata

La prima reazione, alla notizia del tentato suicidio del professore campano che aveva augurato una morte violenta alla figlia di Giorgia Meloni, non poteva che essere la presa di distanza espressa da Massimo Gramellini, sul «Corriere della Sera»: non si ha il diritto di atteggiarsi a vittima quando non si è avuto ritegno ad essere carnefice.

Il professore ha detto di non aver retto all’«accanimento mediatico» nei suoi confronti e si è lamentato di essere stato «crocifisso» e «linciato». Ma – gli è stato ribattuto – quello che ha subìto altro non è se non ciò che lui stesso ha fatto.  Dunque, in sostanza, ben gli sta.

Tutto a posto, dunque? Forse no. Perché nelle considerazioni di Gramellini –  come in quelle del grande pubblico che ha seguito questa vicenda, arrivando alle stesse conclusioni – manca qualcosa. 

Manca la riflessione sul fatto che, comunque,  il “prof. dell’odio” – come lo hanno battezzato su Internet e su molte testate giornalistiche – , è stato a sua volta  vittima di una campagna collettiva di odio, di cui in vario modo tutti, in quanto partecipi della grande galassia dell’opinione pubblica, siamo stati, in qualche modo, protagonisti.

E la presa d’atto che  «il tribunale dei social», come lo ha definito Gramellini, ha funzionato anche contro di lui con la stessa spietatezza che noi giustamente gli abbiamo rimproverato, senza tenere conto di tutte le garanzie che, nei tribunali veri, permettono all’imputato di vedere prese in considerazione le sue ragioni e, soprattutto, di essere rispettato come persona, al di là del crimine che ha commesso. E questo non riguarda più lui, ma interroga noi.

Si può ridurre una persona a una frase o a un’azione?

Le parole scritte dal professore sono state gravissime, su questo non c’è dubbio, e non è stato esagerato definirle mostruose. Ma siamo sicuri che questo giustifichi   la conclusione, data per scontata e innumerevoli volte ripetuta, che chi le ha scritte è lui stesso un mostro? Non solo perché resta comunque una differenza tra il dire e il fare, ma perché una persona non può essere identificata con una frase che ha scritto su Internet, come invece è accaduto in questo caso.

A pensarci bene, non può essere neppure etichettata per una singola azione. Nella vita capita a tutti di comportarsi male in alcune occasioni. Nei casi estremi, di compiere atti gravissimi, che giustamente la società è chiamata a sanzionare e punire, per fare giustizia alle vittime di queste azioni e per tutelare gli altri, ma un essere umano è di più dei suoi errori e delle sue colpe. E, anche il peggiore criminale, merita rispetto.

Non si tratta di buonismo, ma di onestà intellettuale. Davvero accetteremmo di essere ridotti a una parola detta  – o anche a un atto compiuto – di cui pure siamo stati gli autori e di cui forse abbiamo motivo di vergognarci? Vorremmo essere inchiodati davanti a tutto il mondo, per sempre, a quella frase, a quel comportamento?

E sarebbe giusto che tutto il resto – la vita che abbiamo vissuto, le esperienze che ci hanno segnato nel bene e nel male, i torti che abbiamo subìto, gli atti di generosità che abbiamo fatto – sarebbe giusto che tutto questo cadesse come nel nulla, sostituito da una etichetta: “mostro”?

La giustificazione del professore campano –  la sua sarebbe stata «una leggerezza» – , così come la successiva lettera di scuse, non diminuiscono certo la carica di violenza del suo post, ma esprimono un disperato tentativo di sfuggire a questa immagine deforme del suo volto che mille specchi gli riflettevano.

Il fallimento era inevitabile. E, alla fine, questa immagine si è imposta anche a lui e si è reso conto di non poter più convivere con l’io mostruoso che ormai la sua persona era agli occhi di tutti e ormai anche ai suoi. E ha cercato di cancellarla.

La violenza come spettacolo

Lasciando a noi, alla nostra società civile e così pronta ad indignarsi per le colpe degli altri, la domanda sull’umanità di uno stile che non si è certo manifestato in quest’unico caso, ma che è invece ormai abituale nella civiltà mediatica.

Su Internet e sulle prime pagine dei nostri giornali i “mostri” sono di casa. I preferiti sono gli autori di femminicidi. È evidente che in questi casi si tratta di atti di violenza spaventosi, ben più meritevoli di esecrazione che non un post su Internet. Che vi sia nei confronti di questi comportamenti una ferma condanna da parte della coscienza collettiva è giustissimo. 

È il modo in cui questa indignazione si esprime che appare inquietante. Che ci sia qualcosa di morboso nell’approccio dei media e dell’opinione pubblica a questi episodi di violenza, è rivelato già dal fatto che l’ossessiva attenzione per essi finisce per coinvolgere anche le vittime, come nel caso di Chiara Poggi, la ragazza di Garlasco uccisa nel 2007 e, ancora diciotto anni dopo, oggetto di un’orgia di  articoli, di servizi televisivi, di ipotesi, di ricostruzioni, funzionali ai fasti del circo mediatico, ma fuorvianti per l’accertamento della verità dei fatti e soprattutto non rispettosi della persona dell’interessata.

E proprio in questi giorni sono stati i legali dei genitori di Chiara a dichiarare che  «la famiglia Poggi è da settimane vittima di una assillante campagna diffamatoria da parte di organi di informazione e social, che non sta purtroppo risparmiando nemmeno l’amata Chiara».

Dove il meccanismo è sempre lo stesso, per le vittime come per i carnefici: la cancellazione della loro vera identità sostituita da un gioco di specchi che la dissolve, imponendo al suo posto una maschera distorta da esibire sul palcoscenico dei media.

Si potrà obiettare che questo è solo il risvolto problematico di un sana esigenza etica, finalmente impostasi nella nostra società, di individuare, denunziare e colpire crimini che troppo spesso, in passato, in nome della discrezione, venivano coperti con un velo di silenzio e di ipocrisia.

Verissimo. Ma la domanda è se un metodo di denunzia che trasforma tutto in spettacolo sia veramente il modo giusto di combattere la violenza o se non diventi esso stesso una forma di violenza.

Questo vale perfino nei casi in cui ad essere calpestata non è la dignità delle vittime, ma – come per il professore campano o, peggio ancora, per i responsabili di femminicidi o di tanti altri crimini efferati, – quella dei carnefici. La violenza – dicevamo prima – non sta nella condanna senza mezzi termini dei loro atti mostruosi, ma nella identificazione della loro persona con questi loro atti, misconoscendo la complessità che rende ogni essere umano irriducibile all’immagine che gli altri ne hanno. È il monito evangelico «Non giudicate, per non essere giudicati» (Mt 7,1). Che vale per tutti.

Un’indignazione per auto-assolversi?

A colpire è anche il fatto che questi “processi mediatici” prescindono dalla gravità oggettiva dei crimini in gioco. Da diciotto mesi una popolazione di due milioni di persone è massacrata, affamata, umiliata, senza che a livello dei social e dei mezzi d’informazione si levasse una protesta collettiva lontanamente paragonabile a quella che colpisce il “mostro” di turno.

Solo da un paio di settimane comincia a registrarsi sui media una più diffusa presa di coscienza della disumanità di quanto accade e della responsabilità che l’Occidente, l’Italia, tutti noi, ci siamo assunti finora col nostro silenzio.

Per non parlare dei campi di detenzione – da tutte le agenzie internazionali definiti in realtà campi di concentramento – che il governo italiano finanzia in Libia, chiudendo gli occhi sulle violenza di ogni tipo a cui viene ogni giorno assoggettata della povera gente, desiderosa solo di avere una vita migliore. Tutto nella totale indifferenza denunciata coraggiosamente da papa Francesco nella sua accusa ai paesi “civili”. E se i mostri fossimo noi?

Ma forse è proprio per stornare il pensiero da questo dubbio e mascherare la nostra violenza che abbiamo bisogno di quelli che finiscono sulle prime pagine dei giornali.

Vengono in mente le analisi di un noto antropologo, René Girard, sul fenomeno della violenza. Secondo lui è questa, non l’impulso sessuale, la forza primordiale che opera negli esseri umani e li porta ad essere in competizione e ad aggredirsi a vicenda, per i motivi più svariati. Da qui lo scatenarsi di faide senza fine in cui la sopravvivenza stessa della società rischia di essere compromessa.

Il solo modo, dice lo studioso, che dall’antichità ad oggi è stato utilizzato per evitare questo esito disastroso, è l’accordo delle parti in conflitto nello scaricare tutte insieme la loro irrefrenabile tendenza distruttiva su un “capro espiatorio”, riuscendo così a sfogarla senza suscitare rappresaglie che la perpetuerebbero.

Contro la vittima designata, tutti, di comune accordo, possono scagliarsi, sfogando la carica di violenza  che altrimenti indirizzerebbero contro i loro avversari. E alla fine, avendo addossato il male che è dentro di loro sul “capro espiatorio” – sia o no effettivamente colpevole di qualcosa –  tutti possono sentirsi innocenti e condurre tranquillamente la loro vita.

È un quadro che forse potrebbe servire a spiegare perché per giorni e giorni una frase – per quanto orrenda – pescata sui social, abbia occupato l’attenzione dell’opinione pubblica molto di più di quanto non sia accaduto finora per le stragi di Gaza o per i lager della Libia.

Il “mostro” in prima pagina ci distrae dalla nostra violenza –  proprio mentre la stiamo esercitando su di lui, riducendo il suo volto alla maschera perversa che in questo modo gli appioppiamo – e ci rassicura sulla nostra innocenza.

2 replies on “Il mostro in prima pagina”

  • A scuola è stato indispensabile il passaggio su Cesare Beccaria con il suo dei delitti e delle pene per illustrare l’arrivo dell’illuminismo nello svolgimento della nostra storia. Il coraggioso Giuseppe Savagnone, su questa scia, ci ricorda come ci si comporta nelle democrazie nei confronti di chi commette un crimine ed il professore di Napoli ha commesso un crimine. Ha manifestato un auspicio inaccettabile e condannabile. Savagnone ha solo detto come affrontare il fatto. Faccio queste osservazioni perché temo che, superficialmente, alla critica nei confronti dei giustizieri vengano dati significati diversi da chi pensi di essere fra i giusti quando si colloca fra i giustizieri.

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