di Sabrina Corsello
L’ultimo libro di Silvia Vegetti Finzi, Una bambina senza stella, rappresenta una di quelle testimonianze che parlano direttamente al cuore, perché è proprio il cuore-sede della memoria a parlare e a ri-cordare. Escluso il taglio proprio del racconto nostalgico, la struttura suggestiva e poetica sembra voler celare con pudore i tragici eventi di un’infanzia vissuta in epoca fascista, nel pieno delle persecuzioni razziali. La gioia del dono e della condivisione, l’invito all’ottimismo nel compito educativo, prevalgono infatti sulle note inevitabilmente drammatiche dei flash della memoria, senza mai perdere di vista il vero fine: mettere in luce le risorse segrete dell’infanzia, persino in situazioni estreme come quelle da lei vissute.
Il lettore viene accompagnato, quasi custodito, all’interno del mondo magico di una natura animata e incontaminata che per la bambina, vivace e sensibile, sarà molto di più del mancato racconto delle favole. In questo mondo, ogni elemento della natura, ma anche ogni singolo oggetto artificiale, è dotato di un’anima comunicante che la avvolge nel suo incanto. Come in una sorta di stato originario, in sintonia con il proprio ritmo interiore e fuori dal pressante tempo cronologico, essa potrà percepire se stessa in un’unità che la salvaguarderà da ogni forma di separazione.
Più che educata, custodita, più che sostenuta, protetta, la bambina, lasciata a se stessa, avrà la possibilità di risolvere gli eventi negativi, grazie alla sua innata vivacità emotiva e di interpretarli attraverso la sua anima pura e intatta. Benché priva della presenza dei modelli genitoriali, in un contesto comunque sereno e protettivo, potrà trovare le risorse per restare fedele a se stessa ed ancorarsi al nucleo della propria identità, sostituendo il processo di interiorizzazione con quello di autocentramento. Le grandi risorse del gioco libero, della fantasia e della creatività le consentiranno di vivere, nonostante tutto, “felice come una rana nella risaia”. Ed è così che, più tardi, il suo incontenibile slancio vitale la porterà ad esprimere il desiderio di essere riconosciuta ed amata persino quando, costretta nelle cantine fredde e buie del rifugio di guerra, si troverà a vivere forse la più dolorosa delle esperienze di esclusione, quella dall’amore materno; piuttosto che arenarsi in una sterile autocommiserazione, saprà trasformare il suo dolore in un’insolita danza, quella della “capra zoppa”, respingendo così l’esperienza dell’amore di nessuno e aprendosi alla speranza dell’amore di tutti.
Ma se da una parte c’è il racconto de “la bambina” dall’altra c’è la lettura acuta e illuminante della psicanalista che, da un lato permette alla stessa autrice di restituire a se stessa di ogni evento il senso taumaturgico più profondo, dall’altro consente di operare il passaggio dal particolare all’universale, per estendere lo sguardo a tutti i bambini di oggi. La prospettiva stavolta però è ribaltata e l’accento non è posto sull’idoneità dell’adulto, sulla sua credibilità in vista dell’affidamento, ma sulla possibilità che sia l’adulto stesso a dare fiducia al bambino, il quale chiede unicamente di essere aiutato a poter fare da solo. Contro l’ansia di controllo, propria dell’educazione iperprotettiva dei nostri giorni, contro un’educazione troppo carica di aspettative, ansie e paure, l’invito che viene rivolto ai genitori è quello di sperimentare una sorta di libertà negativa che determina a lasciar fare, ad astenersi dal fare, rinunciando all’esercizio di continue e pericolose intromissioni nella sfera intatta e sacra del bambino. Una sorta di mano invisibile degli affetti sembra infatti accompagnare lo sviluppo emotivo di ogni bambino, nel suo cammino verso l’età adulta.
Non si tratta di un ottimismo inteso come stato d’animo ingenuo e spensierato, ma di un compito educativo da assolvere e da tradurre nella capacità di dare fiducia ai propri figli, affinché anch’essi possano, a loro volta, imparare ad avere fiducia in se stessi ed affidarsi alla vita. In ultima analisi, dare fiducia al bambino vorrà dire dunque puntare sulle sue stesse potenzialità, favorire la libertà dell’immaginazione contro l’imposizione del dominio violento di immagini, mirare alla sviluppo della creatività, rinunziando ad un’educazione ansiosa e a smanie di controllo, rispettare come sacro lo spazio del gioco.
Non mancano riferimenti espliciti agli insegnanti i quali, anche loro, a momento opportuno, devono sapersi astenere da interventi eccessivi e dare invece fiducia ai ragazzi, rifugendo da quella percezione immediata che per comodità tende ad inserire l’allievo in un casellario già predisposto. Un vero maestro è infatti quello che sa sospendere il giudizio, che ama lasciarsi sorprendere e che, sotto il suo sguardo empatico ed incoraggiante, sa fare emergere l’allievo per ciò che è. Il modello di riferimento è quello della paideia socratica che, attraverso la maieutica è capace di restituire ogni allievo a se stesso, di rivelargli la parte più autentica di sé e di liberarne le facoltà creative.
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