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La fine del “posto”

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di Giuseppe Savagnone

 

  Le accanite diatribe di questi giorni sull’abolizione dell’art.18 inducono nell’osservatore spassionato due ordini di considerazioni apparentemente conflittuali. Da una parte, non c’è dubbio che stiamo assistendo al paradosso di un governo “di sinistra” impegnato a perseguire, nella regolamentazione del lavoro, il progetto  liberista tipico del più classico capitalismo. La cosiddetta “flessibilità” – nome nobile per definire la precarietà – è, infatti, in buona sostanza, la rinunzia a garantire la certezza del posto di lavoro e la consegna senza riserve del destino del lavoratore nelle mani dell’imprenditore.

  Non a caso Renzi, mentre parla a gran voce di una coraggiosa battaglia combattuta contro i “poteri forti”, si ritrova però a fianco, nel ruolo di entusiasta alleata, la Confindustria, che fino a ieri tutti credevamo la più tipica rappresentante di questi “poteri”. È un dato di fatto che – quali che siano le ragioni (anche comprensibili: su questo tornerò fra poco) che possono giustificare la scelta del PD e del suo leader – quello che  la sinistra italiana sta realizzando è il sogno vanamente accarezzato per decenni dalla destra economica e politica, rafforzando la posizione di chi è forte (il datore di lavoro) e indebolendo quella di chi è debole (il dipendente).

  Tutti i tentativi per mascherare questa semplice verità non sono convincenti. Sostenere seriamente, come si è fatto, che nell’impresa padroni e operai sono tutti egualmente lavoratori, senza differenze,  può essere accettato solo a patto di precisare che alcuni di essi, però, hanno (spesso oltre alla villa, alla barca, alla Mercedes, etc.) le leve decisionali e gli altri (spesso senza villa, senza barca, senza Mercedes) non ce l’hanno.

  Dall’altra parte, è innegabile che i sindacati siano attestati su posizioni anacronistiche, ampiamente superate dal quadro dell’economia attuale, e che proprio la loro ostinata difesa aprioristica del “posto”, quali che siano le capacità, l’impegno, l’effettivo rendimento, di chi lo occupa, ha reso insostenibile il regime passato.

   Perché il lavoro non si identifica con il posto. E troppo spesso proprio questa identificazione ha finito per oscurare il senso del primo e distorcere quello del secondo. Troppo spesso, specialmente al Sud, avere un posto ha significato essere esonerati dal lavorare. Quanta gente in Italia la meta agognata è stata  un “posto di stipendio”, in cui essere pagati molto lavorando poco o nulla! Quante volte l’assenteismo, la  scarsa qualità dell’impegno professionale, il disinteresse per l’esito dell’impresa lavorativa, pubblica o privata che fosse, si sono nutriti di questo modo di pensare!

  Il lavoro, in realtà, è tutt’altra cosa. È l’interpretazione creativa grazie a cui  qualcuno, in base alle proprie competenze, riesce a far emergere da un lato le risorse, dall’altro i bisogni, mettendoli per la prima volta in relazione tra di loro e facendoli esistere proprio per questa relazione. Il beduino che trecento anni fa vedeva sgorgare dal terreno del suo campiello un liquido nero, oleoso, maleodorante, che invadeva le sue magre colture, si disperava per la sua disgrazia. Il petrolio, allora, non era ancora una risorsa. Reciprocamente, in quell’epoca nessuno aveva bisogno di fare il pieno di benzina. Risorsa e bisogno sono nati dal loro incontro. Ma per esso, sono stati necessari degli uomini che hanno  saputo vedere, al di là dell’esistente, ciò che ancora non esisteva. Questo significa lavorare.

  Non è solo un caso eccezionale. Ogni giorno sperimentiamo la differenza tra un buon idraulico, che capisce al volo le esigenze che noi stessi non gli abbiamo neppure saputo esprimere e sa attingere alle potenzialità del suo repertorio le risposte più appropriate, e un  lavoratore svogliato, che si limita a eseguire meccanicamente il compitino assegnatogli e, quando protestiamo per l’esito del tutto insoddisfacente, si giustifica: «Ma io ho fatto quello che mi ha detto lei!».    E sappiamo tutti la differenza tra un funzionario intelligente, che ci aiuta a definire la nostra vera richiesta e ci indirizza sulla strada più rapida, evitando inutili lungaggini e vicoli ciechi, e un burocrate ottuso e fiscale, che ci costringe a una trafila di pratiche alla fine inutili, facendoci perdere tempo e soldi.

  Il lavoro dell’uomo, per essere veramente umano, deve coinvolgere tutte le risorse della personalità del lavoratore, si tratti di un fisico nucleare o di un cuoco, di un medico o di un giardiniere. Ma questo esclude che si possa puntare, come hanno fatto finora i sindacati,  su una sua regolamentazione esclusivamente quantitativa e ciecamente protettiva, che finisce per incoraggiare i nullafacenti e penalizzare, scoraggiandoli,  i veri lavoratori.

  Per valorizzare il lavoro, però, non basta abolire le tutele vincolanti, come sta facendo Renzi. Bisogna sconfiggere la logica parassitaria di un capitalismo tipicamente italiano, che chiede mano libera sui licenziamenti nel contesto di un perseguimento  unilaterale dei propri interessi particolari, piuttosto che in vista del bene comune. Lo stesso capitalismo che, in Italia, da sempre privatizza i profitti e socializza le perdite, che quando può evade il fisco, che manda i capitali all’estero in attesa del prossimo condono. Su questo fronte il  governo non sembra particolarmente deciso, anzi forse ha fatto dei passi indietro perfino rispetto ai tempi di Monti.

  Non si tratta di tornare indietro, ma di andare avanti nella direzione di una vera modernizzazione. Una cultura del lavoro è inscindibile da quella della giustizia, che non è ottuso rifiuto di ogni forma di differenza (contro un certo livellamento spesso confuso con l’uguaglianza), ma non è compatibile neppure con il mantenimento dei privilegi che a tutti i livelli ancora caratterizzano la nostra società. Non è l’economia di mercato che bisogna combattere, ma  i meccanismi perversi che la viziano e la fanno funzionare solo a vantaggio di alcuni.

 

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