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L’icona delle icone

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di Valeria Viola

 

Più o meno mentre Firenze scopriva il genio di Filippo Brunelleschi nell’ardimentosa impresa di erigere la cupola di Santa Maria del Fiore sopra l’ampio tamburo arnolfiano, veniva dipinta, più che mai lontano dal clima rinascimentale, una delle icone russe oggi più conosciute ed apprezzate nel mondo: la Trinità di Andrej Rublëv. Realizzata intorno al 1420 e conservata oggi presso la Galleria Tret’jakov a Mosca, l’icona rappresenta 3 creature angeliche sedute attorno ad una mensa, al cui centro si nota la presenza solitaria di un calice: si tratterebbe, secondo la tradizione, della Trinità che fa visita ad Abramo ed a sua moglie Sara per promettere loro una discendenza, motivo per cui l’icona è anche nota col titolo di Philoxenia o Ospitalità di Abramo.

Le numerose riproduzioni che oggi si trovano nei posti più disparati suggeriscono una certa fama di questa icona, ma al momento in cui se ne chiede il significato i più rimangono al superficiale livello del titolo. Approfittiamo, dunque, dello spazio a nostra disposizione per dare alcune semplici dritte sulla sua lettura, senza ovviamente avere la presunzione di poterne esaurire l’approfondimento critico. Iniziamo col ricordare, però, che le icone orientali, a differenza dell’arte cristiana occidentale, non si limitano a descrivere un personaggio o un evento ma hanno sempre un contenuto teologico: più ancora, per esse è stato detto “la teologia approfondisce la verità con ragionamenti, l’immagine invece ne offre come una visione” (Egon Sendler 1985) e ciò vale in ispecie per le icone russe.

 

Nella icona della Ospitalità di Abramo il primo a scomparire è proprio Abramo, come anche sua moglie ed il banchetto, pure presenti in precedenti rappresentazioni: Andrej Rublëv (1360-1430) elimina gli elementi storici dell’evento e si concentra sulle figure essenziali (angeli, mensa, calice) e sulla composizione delle stesse entro un cerchio invisibile. Il cerchio, che ha pressappoco centro sulla mano del 2° angelo, compone le tre persone in unità lasciando al di fuori i simboli terreni (la tenda-tempio di Abramo, la quercia di Mamre, la montagna). La tavola, infatti, è rettangolare e segue una proporzione di 4:5, per cui le figure rientrano in un quadrato che poggia sulla base e si chiude sopra la fronte della figura mediana, lasciando la fascia rettangolare sovrastante dedicata agli elementi mondani.

Come quelle del supporto anche le proporzioni degli angeli sono allungate: 14 volte la testa invece di 7. Il risultato è quello di 3 elegantissimi pellegrini che nella posa si discostano leggermente dalle rigide indicazioni geometriche prima accennate per dare vita ad una muta conversazione, il cui tema è la Parola di Dio in atto nel sacrificio del Figlio unigenito (Gv 3,16). Non solo, infatti, il calice riportava inizialmente il disegno di un Agnello, ma la sua forma è richiamata dalla sagoma delle figure laterali che formano un secondo calice entro il quale è inquadrato l’angelo centrale. Per questo motivo, questa figura è tradizionalmente identificata con il Figlio, mentre sono individuati nell’angelo a sinistra il Padre ed a destra lo Spirito Santo (in verde), sebbene non manchino fonti che ritengono invertite le identificazioni del Padre e del Figlio (P.N. Evdokimov 1990)

L’icona, comunque, tende principalmente a sottolineare l’unità e l’uguaglianza dei 3 personaggi, che, notevolmente somiglianti tra loro, comunicano silenziosamente con sguardi dolci ed un movimento dei capi che crea un rimando ancora una volta circolare, da destra verso sinistra. La profusione di oro, abbondante e senza ombra, indica come sempre la divinità, ma la natura ultraterrena delle figure è anche suggerita dalla loro stessa rappresentazione: i volti sono di ¾ e perciò sfuggenti nelle loro caratteristiche umane (si ricordi che nel mentre l’Italia rinascimentale inaugurava la forza – tutta umana – dei suoi profili!), le spalle cascanti e le vesti ampie fanno immaginare un corpo leggero, così come l’abbondanza della capigliature evidenzia la fragilità dei visi.

Inoltre, le figure si proiettano in avanti verso lo spettatore. E’ il risultato della cosiddetta “prospettiva inversa”, che, all’opposto della tecnica di rappresentazione “lineare” che contemporaneamente si approfondiva dalle nostre parti, ha un punto di fuga non sul fondo della scena, ma davanti ad essa e, quindi, al di fuori del dipinto. Per essere precisi, difficilmente nelle icone vi è un solo punto di convergenza, ma nel nostro caso è evidente che le sedute rappresentate in primo piano tendono ad uscire fuori dalla inquadratura e le persone che vi stanno sopra tendono ad avanzare verso l’osservatore. Questo perché l’immagine non è vista come una finestra sul mondo che deve essere esplorato dall’intelligenza umana (…o umanistica), ma è una visione della verità (teologica) che si offre a chi guarda.

Similmente avanza anche la luce, che, a differenza della illuminazione naturale dei quadri occidentali, emana dal fondo e sottolinea i gesti dei personaggi; in alcuni casi si tratta di luce “propria” delle figure angeliche (contro l’ombra “propria” delle tecniche occidentali di geometria descrittiva), che con riflessi sulle vesti e sui visi – non scaturiti da fonte luminosa razionalmente concepibile – sottolinea la natura spirituale dei 3 pellegrini. I riflessi, d’altra parte, non danno l’illusione dello spazio ma contribuiscono solo a modellare le pieghe delle vesti. Come è stato detto, la bellezza, l’armonia ed il silenzio di questa icona non fanno che invitare alla meditazione. Ma c’è di più: le icone, e questa in particolare, sono il veicolo per un esperienza dell’ineffabilità di Dio, sono il filtro attraverso cui riusciamo a leggere la Verità che ci è rivelata.

Se Cristo è l’immagine visibile del Dio invisibile (da San Paolo), l’icona è riflesso della realtà di Dio. Lo spazio rappresentato non è naturale ma immobile, silenzioso, meditativo, trascende la realtà storica ed il mondo degli uomini, perché è espressione della verità della fede. Conseguenza di ciò – ed è il risvolto della medaglia – è l’immobilità di un’arte codificata che rifugge i cambiamenti perché la possono condurre lontano dalla giusta interpretazione della Verità.

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