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Dallo sport all’agonisticomania

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di Sabrina Corsello

 

Il rapporto dell’uomo moderno occidentale con il proprio corpo oggi è oggetto di attenzioni e riflessioni, forse a compensare i molti secoli di disinteresse o di mistificazioni sull’argomento. La cultura greca, in particolare il dualismo platonico, ci ha resi eredi di una visione per la quale mente e corpo sono due dimensioni distinte e separate. Più avanti, Cartesio, il padre della filosofia moderna -benché si sia sforzato di superare il dualismo introducendo l’espediente della ghiandola pineale come punto privilegiato in cui mente e corpo interagiscono- di fatto rimarrà fermo alla separazione tra res cogitans e res extensa. Tuttavia l’idea che il benessere sia qualcosa che abbia a che fare con la stretta relazione tra corpo e mente, in realtà, è già presente nell’antichità, se si pensa che Giovenale il poeta latino vissuto tra il 50 e il 140 d. C., scriveva nelle sue Satire: “Orandum est ut sit mens sana in corpore sano”.

 Quello di cui oggi però vorremmo parlare è il modo in cui il rapporto mente-corpo si dispiega attraverso lo sport, per tracciare una via attraverso cui lo sport può, o dovrebbe poter divenire per le nuove generazioni, strumento di educazione e di crescita consapevole.

 Innanzitutto occorre chiedersi se alla sempre più ricca e svariata offerta di attività sportive corrisponda davvero, nell’uomo contemporaneo, una consapevolezza dell’importanza dell’attività fisica per il suo benessere e per una crescita sana. Non sono certo mancati studi a sostegno della stretta relazione tra salute del corpo e benessere psichico che, in particolare, hanno provato l’intimo rapporto tra movimento e capacità di concentrazione e che hanno dimostrato come a una maggiore attività fisica corrisponda un maggior livello di autostima e una minore predisposizione a stati d’ansia. Malgrado ciò, ancora oggi, in Italia risulta che solo il 10% della popolazione adulta svolge una regolare attività fisica. Ma la cosa ancora più strana, sulla quale vorremmo fermarci a riflettere, è che questi stessi adulti – dunque per lo più statici e sedentari – tuttavia si trovano ad imporre ai propri figli, peraltro spesso prematuramente, attività sportive a ritmi incessanti.

 Negli ultimi vent’anni infatti la dimensione ludica dello sport, che nell’infanzia dovrebbe caratterizzare l’approccio più adeguato, è stata sopraffatta da una spinta prematura verso l’impostazione agonistica. L’agonismo è diventato un fenomeno di massa che ha raggiunto ogni disciplina, portando verso un precoce e indiscriminato coinvolgimento di bambini e adolescenti.

Basta risalire al significato etimologico della parola agonismo per comprenderne meglio il significato; infatti la parola greca agon significa conflitto, ed è sinonimo di competizione, combattività, rivalità, aggressività, accanimento. Per attività sportiva agonistica si intende dunque, quella attività praticata continuativamente, sistematicamente, esclusivamente in forma organizzata, finalizzata al conseguimento di prestazioni sportive di elevato livello, che richiede, pertanto, un elevato impegno psico-fisico.

Ora c’è da chiedersi se un’attività sportiva così pensata sia adeguata alla fascia di età cui, di fatto, essa si rivolge, ossia quella dell’età evolutiva che va da i 7 ai 18 anni. L’agonismo di massa, infatti, in quanto spinta precoce e indiscriminata, sottopone a ritmi incalzanti e impone un’accelerazione dei ritmi di crescita che, non tenendo conto delle peculiarità e delle differenze individuali, solo pochi sono in grado di sostenere. E’ noto infatti che il bambino in sé non abbia alcuna attitudine innata al conflitto o alla competizione, bensì al sano gioco e al divertimento. Si tratta tuttavia di un gioco che è cruciale per la sua crescita, al punto che la Montessori attribuiva ad esso la stessa importanza che il lavoro ha per l’adulto nella misura in cui è proprio attraverso il gioco che il bambino “lavora” per il proprio sviluppo.

In realtà l’ascolto di sé e la consapevolezza delle proprie attitudini e preferenze, che dovrebbero sottendere la scelta di un sport, richiedono tempi e processi graduali.  Non è un caso che il bambino spesso trascorra buona parte dell’infanzia e talvolta, anche della sua adolescenza, passando da uno sport all’altro. Sarebbe erroneo e fuorviante comprendere questi comportamenti come semplici capricci puerili. A ben vedere, infatti, la posta in gioco è alta, in quanto proprio l’attività sportiva si pone come uno dei più importanti contesti attraverso cui il bambino fa esperienza di sé, e del proprio corpo. Ma perché ciò sia reso possibile è necessario che lo sport sia proposto al bambino innanzitutto come esperienza ludica. Attraverso il gioco sportivo al bambino viene infatti offerta l’opportunità di esplorare le potenzialità del proprio corpo, di misurarsi con l’importante limite dato dalle regole del gioco e di sperimentare – specie nei giochi di squadra – il senso di appartenenza e l’importanza della cooperazione.  Inoltre la stessa possibilità di scegliere uno sport, dal momento che porta il bambino a chiedersi cosa gli piace, si presenta come occasione preziosa affinché egli possa prendere contatto con il proprio desiderio. Perché ciò possa accadere, lo sport non dovrà mai essere imposto ma, ben diversamente, proposto come risposta accogliente del desiderio espresso.

Quindi se è vero che la prima domanda che il bambino, adeguatamente stimolato, pone a se stesso è quella di chiedersi cosa gli piaccia fare, allora c’è da chiedersi cosa accade se, prima che sia maturato il tempo adeguato per giungere a tale risposta, egli si trovi costretto, suo malgrado, a fare i conti con l’esperienza della dura competizione. In altre parole, cosa accade quando, antecedentemente alla consapevolezza del suo desiderio, lo scenario che gli si palesa davanti è quello dell’agon, in cui l’altro si palesa, prima ancora che come compagno di gioco, come l’avversario da vincere? E’ possibile la fioritura del desiderio prescindendo dall’incontro e rimpiazzando questo con il prioritario scontro conflittuale con l’avversario?

In realtà lo sport, assieme alla scuola, costituisce per il bambino una delle prime opportunità di socializzazione, là dove invece l’agonistica, con i suoi tempi serrati e incessanti, non solo rende più difficoltoso ritagliare i tempi dello studio, ma di fatto finisce con il lasciare poco spazio al gioco e alla socializzazione. Oggi il bambino, incastrato spesso nei ritmi fenetici della sua routine quotidiana, sembra aver perso la nozione di tempo libero, ossia di un tempo vuoto, silente, in cui ci si può misurare con quella noia che risulta feconda e capace di stimolare la creatività. Le giornate sono sempre fin troppo organizzate nei minimi dettagli e il bambino è sempre più costretto a muoversi in un contesto che lascia poco spazio alla fantasia, alla spontaneità e al sano divertimento.

 Inutile dire che quello descritto è solo uno dei tanti fenomeni espressione di una società consumistica che, purtroppo, non sembra voler risparmiare alcun ambito dalle cieche e, a volte, spietate logiche del profitto. Infatti il fenomeno dell’agonismo di massa risente inevitabilmente del fatto che le società sportive ricevano buona parte dei proventi e delle sovvenzioni, proprio in funzione del numero dei loro atleti agonisti e dei loro successi. Si tratta di un fenomeno che va a rintracciare caratteristiche e dinamiche proprie del rapporto genitori-figli che caratterizza il nostro tempo. Così non è raro accorgersi di genitori-figli (genitori cioè che si pongono rispetto ai figli su di un piano simmetrico) che, come lucidamente afferma M. Recalcati, narcisisticamente proiettano sui loro figli aspettative di successo e di fama, predeterminandone destini che, in quanto tali, non possono essere felici.

Da un punto di vista psicologico gli esiti negativi di questo prematuro e spesso inadeguato confronto con modelli di prestazione difficilmente raggiungibili, possono essere tanti: l’insorgere di stati d’ansia apparentemente immotivati, disturbi del tono dell’umore, senso di inadeguatezza, frustrazione, disturbi del sonno, apatia, astenia etc.  Che non si tratti di mere ipotesi teoriche, ma di pericoli realistici, è dimostrato dal fatto che in alcuni centri sportivi agonistici si è compreso che l’agonistica non è affrontabile senza un supporto psicologico costante. Si giunge così al paradosso: lo sport che, attraverso il gioco, dovrebbe portare al sano divertimento e favorire una crescita sana della persona, diviene al contrario un problema da affrontare e risolvere!

Non è insolito che la conclusione di questo tortuoso percorso siano proprio i bambini, forse ormai divenuti ragazzi, a darla. Stanchi dell’eccessiva pressione del trainer e della famiglia, ad un certo punto, essi stessi, a volte inaspettatamente, impongono il loro improvviso rifiuto e abbandonano lo sport. La cosa triste è che, purtroppo, dopo tale esperienza, non sempre e non tutti riescono a salvare l’essenziale, ossi la voglia di mettersi alla ricerca di un nuovo sport con cui divertirsi e attraverso cui crescere sani.

In conclusione, possiamo dire che il nuovo fenomeno dell’agonismo di massa è una delle tante espressioni di meccanismi sociali che, legati strettamente alle logiche del profitto, propongono una falso e illusorio accesso a tutti, a dimensioni che, in realtà, sono accessibili solo a pochi. L’illusione è quella che, attraverso il denaro, sia possibile prescindere dalle diversità, dalla giusta distinzione dei talenti, delle diverse inclinazioni e soprattutto dal criterio meritorio.

 

 

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