Giuseppe Savagnone
Scrittore ed Editorialista.
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Una lacerazione ricucita a fatica
Non è bastata neppure la precipitosa retromarcia di Conte, dopo il duro comunicato della Cei, a placare le polemiche suscitate dalla sua conferenza stampa di domenica sera, in cui aveva annunciato il mantenimento della sospensione sine die delle celebrazioni eucaristiche. Immediata la risposta della Conferenza Episcopale Italiana, che aveva denunciato la violazione dell’«esercizio della libertà di culto». Un’accusa grave, foriera di una rottura che il presidente del Consiglio sicuramente non prevedeva e non voleva. Da qui la nota con cui palazzo Chigi, nella tarda serata dello stesso giorno, tentava di recuperare annunciando l’elaborazione di un protocollo per la partecipazione dei fedeli alle celebrazioni liturgiche.
Si è saputo, dopo, che la decisione del governo era stata presa su indicazione del Comitato tecnico-scientifico, in base alla considerazione che le chiese sono frequentate soprattutto da persone anziane, particolarmente esposte al contagio.
Ora si parla di una ripresa delle celebrazioni liturgiche per domenica10 maggio, privilegiando le messe all’aperto e mettendo in atto una serie di precauzioni per evitare il contagio.
Le reazioni favorevoli alla Cei
Questi i fatti. Ma, al di là dell’episodio, resta il vespaio di reazioni e di commenti, che hanno delineato una netta spaccatura nell’opinione pubblica, prima di tutto in quella cattolica.
La netta maggioranza di quest’ultima si è schierata con la Cei. Da un capo all’altro d’Italia vescovi, parroci, semplici fedeli, hanno salutato la presa disposizione della Conferenza Episcopale come una salutare reazione a un provvedimento che rischiava di perpetuare la situazione di disagio che la sospensione delle messe aveva creato.
A colpire sono stati soprattutto l’unilateralità della decisione e lo scarso valore attribuito alla dimensione religiosa. Per quanto riguarda la prima, in un’ intervista al «Giornale» il cardinale Camillo Ruini, ex presidente della Cei, ha accusato il governo di essersi arrogato «competenze non sue riguardo alla vita della comunità cristiana».
Sullo sfondo, l’art.7 della Costituzione, dove si dice che «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». O, ancora più monte, la famosa risposta data da Gesù ai dottori della legge che lo interrogavano sulla liceità del pagamento del tributo a Cesare: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21).
Quanto al misconoscimento della dimensione religiosa, un altro ex presidente della Cei, il card. Angelo Bagnasco, ha fatto notare che «la persona ha desideri non solo materiali, ma anche spirituali. Assicurare il pane della tavola è doveroso, ma non riconoscere anche il pane dello spirito significa non rispettare l’uomo e impoverire la convivenza. L’esperienza della fede genera energia morale, e questa è la vera forza di una società».
Le reazioni critiche
Non sono mancate le reazioni contrarie alla presa di posizione dei vescovi, anche da parte di cattolici. Emblematica la posizione di don Giovanni Ferretti, noto filosofo: «Libertà di culto non è libertà di infettare la gente. La nota Cei mi ha profondamente amareggiato, come cittadino, come cattolico e come prete, mi pare un errore politico e pastorale». I motivi: «Siamo in grado oggi di assicurare che non vi sarà pericolo di contagio? Sapremo sanificare le chiese? Sapremo obbligare la gente a tenere le distanze le mascherine?. E il prete celebrerà con la mascherina? Che Messe con il popolo sarebbero mai queste?».
Ci sono stati anche commenti più aspri, come quella del teologo Alberto Maggi, che ha esortato a non dare troppa importanza all’opinione dei vescovi, incapaci, a suo avviso, di percepire le vere esigenze della società e degli stessi cristiani.
Convergendo così, paradossalmente, con la posizione di Antonio Socci, instancabile critico di Francesco e della Chiesa da lui guidata, secondo cui «da sempre la Cei – su ordine del papa argentino, mosso dalla precisa intenzione di attaccare la Lega di Salvini – era stata più che collaborativa: servile». Tardiva, dunque, secondo Socci, la protesta per la decisone di Conte: «La Cei raccoglie quello che ha seminato. Da servi si sono comportati, da servi vengono ora trattati».
L’ammonimento di papa Franceesco
Grande rilievo i mezzi di comunicazione hanno dato alle parole del papa, durante una messa a Santa Marta: «In questo tempo nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e dell’obbedienza alle disposizioni perché la pandemia non torni».
Una preghiera interpretata da molti come un segnale di sostegno alla posizione del governo nello scontro con la Cei, tanto da far parlare a un quotidiano di «una vistosa mancanza di comunicazione» e di «forti incomprensioni tra papa Francesco e la Conferenza episcopale italiana»
Così del resto hanno interpretato le parole del papa quei cattolici che già da tempo vedono in Francesco un dissacratore della genuina tradizione cattolica e che hanno commentato con giudizi del tipo: «Il primo Papa ateo della storia», «Papa comunista», «Ritorni in Argentina».
Il punto di vista dell’altro
Cosa pensare di questa vicenda e, soprattutto, delle prese di posizione che essa ha suscitato? La prima cosa appare evidente è che ci sono state delle difficoltà a mettersi nel punto di vista dell’ “altro”.
È stato sicuramente l’errore di Conte che, pur avendo delle importanti ragioni scientifiche e sanitarie a favore della sua soluzione iniziale, non ha tenuto affatto conto della grande fatica con cui il mondo cattolico e i suoi pastori avevano vissuto questo periodo, con sincero spirito di collaborazione col governo, ma attendendosi anche una adeguata comprensione, da parte di quest’ultimo, delle proprie esigenze.
Il premier non si è neppure reso conto che i vescovi si trovavano pressati da una base inquieta e perplessa, a cui i “conservatori” e i partiti di destra – con in testa Salvini, il quale aveva fatto la proposta (lasciata cadere dalla Cei) di riaprire le chiese per la Settimana Santa – offrivano continue sollecitazioni, accusando la gerarchia di “resa” di fronte al potere politico.
Le esagerazioni del comunicato e di molte reazioni dei cattolici
Anche da parte della Cei, è vero, l’accusa rivolta a Conte di voler violare la libertà di culto, è suonata in sé esagerata. E il tono appare troppo rivendicativo e quasi minaccioso. È mancata – nel comunicato dei vescovi, ma soprattutto in tanti commenti provenienti dal mondo cattolico – una sfumatura di comprensione nei confronti del governo, alle prese con una sollevazione generale, da parte di tutte le categorie che vogliono riaprire le rispettive attività, in un momento in cui i medici dicono che la riapertura è un grosso rischio.
Le ragioni della Cei
Alla Cei bisogna tuttavia riconoscere l’impatto della delusione, davanti a una decisione bruscamente unilaterale, mentre era ancora in corso un dialogo rispettoso col governo. Tanto più che il decreto prevedeva, entro i primi di giugno, la data di riapertura di musei e ristoranti. Finché si era trattato, come finora, di farmacie e tabaccai, era stato facile rispondere ai critici interni che una veloce compravendita non è comparabile alla partecipazione di una folla a una messa domenicale. Ma i musei e i ristoranti? Possibile che non ci fosse neppure par condicio fra i McDonald’s e le chiese?
Resta la violenza di una frangia consistente di cattolici che hanno dato l’impressione di pensare il problema solo in termini confessionali, contraddicendo l’etimologia di “cattolico”, che indica una pienezza e universalità di visione. Giusta la richiesta della ripresa delle funzioni, non sempre il tono.
Il bilanciamento negato
Altrettanto unilaterale appare l’atteggiamento di coloro che si sono indignati per la presa di posizione dei pastori. Fermo restando il valore primario della salute, oggi si sente giustamente l’urgenza di bilanciarlo con altri, per tentare una difficile ma non impossibile conciliazione. Lo si fa per il lavoro e la produttività, senza cui si rischia di morire di fame, invece che di coronavirus. Lo si fa per la cultura, riaprendo le librerie e i musei. È giusto chiedere che si faccia anche per le funzioni religiose. A meno di dare per scontato, come purtroppo accadeva anche prima del coronavirus (quando le chiese erano aperte!), che ciò che non muove il Pil sia irrilevante e venga dopo.
Che significa essere cattolici “praticanti”?
Soprattutto però appare preoccupante la scarsa percezione, dall’una e dall’altra parte, che questa società potrà risollevarsi, anche dal punto di vista materiale, solo reinterpretando la dimensione spirituale. Non lo capiscono coloro che mettono in secondo piano, come optional, la sfera religiosa. Ma sembrano non capirlo neppure coloro che, per recuperarla, si pongono soltanto il problema di ripristinare il culto pubblico.
In questi giorni, in un articolo apparso su «Settimananews», Ivo Seghedoni ha fatto notare che il coronavirus ha fatto saltare lo spartiacque tra cattolici “praticanti” e “non praticanti” a cui eravamo assuefatti da secoli, e che indicava nei secondi coloro che non vanno in chiesa la domenica.
Oggi ci siamo trovati tutti ad essere, in quel senso, “non praticanti”. Ma questo ci costringe a chiederci se davvero la “pratica” che caratterizza il cristiano si possa ridurre alla frequenza ai riti, o se non dobbiamo prendere coscienza che essa oggi esige un ripensamento più profondo, che non escluda il culto ma riproponga aspetti dimenticati del Vangelo.
Perché ora a messa ci torneremo, ma, così come non abbiamo cessato di essere “praticanti”, nel senso evangelico per il solo fatto di essere esclusi dai riti, non è detto che lo saremo davvero perché la domenica ci presenteremo a prendere l’eucaristia.
4 Response Comments
Lucida cronaca di un conflitto/dialogo (Stato-Chiesa) che una storia bimillenaria. Grazie.
Ha perfettamente ragione: giusti i messaggi, sbagliati modi e toni da entrambe le parti. Come sempre e’ Papa Francesco a illuminare la via, che pretesi tutori della libertà di un culto che non praticano e il cui spirito non conoscono vogliono invece solo rendere più oscura.
Ho visto oggi la messa del Papa a Santa Marta,.
Da tempo non vedevo l’ ostensorio e l’ eucarestia lì custodita, in un cerchio dorato circondato da raggi dorati.
Il tempo e il silenzio, con l’ immagine televisiva lì fissa per molti minuti.
Emozione forte e l’ istintivo richiamo al raccoglimento, una potenza che condivide solo con la parola vera.
Credo che basti questo per ringraziare i Vescovi che finalmente hanno giustamente amplificato la domanda di tutti i fedeli di tornare a celebrare la messa in condizioni di possibile sicurezza. L’ eucarestia è sacramento sempre, e il cristiano non ne può fare meno. E’ la summa di tutti i sacramenti che non hanno un valore simbolico, ma una carica di potenza interiore, una energia vitale, che trasforma e alimenta lo spirito, e perciò sono essenziali e indispensabili alla vita di fede. Come si può accettare la privazione per così tanto tempo, senza invocarne il diritto?
Sì, perchè di diritto negato si tratta. In questa pandemia, gli eventi celebrativi del calendario liturgico e civile si contrappongono pesantamente al momento attuale, quasi sembra l’ apoteosi del paradosso.
Il giovedì santo, memoria della istituzione dell’ eucarestia è il giorno che ci viene negata, e poi il giorno di Pasqua, la messa delle messe, non viene celebrata dalla comunità . Sì dalla comunità, perchè abbiamo imparato che da soli non vi è salvezza e che la salvezza è nelle relazioni, a cominciare dalla adorazione insieme e in carne ed ossa, a cominciare dalle celebrazioni del mistero.
Gli atti degli apostoli, e le primitive comunità cristiane sfidavano le persecuzione per spezzare insieme il pane e lo facevano clandestinamente..
Bene hanno fatto allora i vescovi, dopo avere atteso invano una risposta alla offerta di collaborazione per la sicurezza, a reclamare la libertà di culto e l’ autonomia decisionale nel campo della fede.
I nostri padri costituenti hanno dedicato ampio spazio alla religione e hanno riconosciuto la libertà della fede e dei modi di esercitarla .
I nostri padri e maestri costituenti hanno consacrato nella Carta fondamentale i patti lateranensi e la libertà di culto , rendendo addirittura i patti lateranensi immodificabili unilateralmente. Essi possono essere modificati unilateralmente solo con il procedimento di modifica della Costituzione italiana, e dunque con un doppio dibattito e passaggio parlamentare e con doppia delibera in ciascuna camera.
Oggi invece con un mero atto amministrativo di un organo individuale si stabilisce se la Chiesa possa riunirsi in sicurezza per adorare insieme il cuore della vita della Comunità.
So bene l’ obiezione di molti: prima vivi. Questa obiezione però implica un ulteriore e connessa riflessione sull’ emergenza attuale. Sembra oramai acclarato che con il virus dovremo conviverci per lungo tempo, che il contagio non è di per sé malattia, che il contagio è in forte regresso e in alcuni territori nullo, e che solo il vaccino di là da venire ci darà sicurezza. Qualche giorno fa l’ oms ha indicato nella svezia l’esempio da seguire, dove da subito si è sperimentato una prudente convivenza senza particolari e rigide restrizioni alle libertà.
Quelle stesse libertà che il premier con espressione infelice, nei discorsi televisivi, non riconosce ma solo consente. Non è una una sottigliezza linguistica, perchè mentre il Presidente del Consiglio nel discorso di domenica scorsa per ben undici volte ha detto “ è consentito ….( visitare i congiunti, l’ attività motoria),” La Costituzione e la suprema assemblea costituente, quasi con riverenza, e in atteggiamento di adorazione, in punta di piedi e con pudore recita che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili, che sono i diritti umani, sacri perchè non concessi dallo Stato ma riconosciuti quali diritti a questo preesistenti, e coevi solo a chi li ha creati. Un grande giurista e maestro contemporaneo che è il prof. Zagrelbelsky, già presidente della Corte Costituzionale, afferma che i diritti fondamentali non possono essere modificati senza che venga meno la ragion d’ essere della Costituzione e che resistono anche al procedimento di modifica della Costituzione, che in tutto si può cambiare tranne che in questo e la sua forma Repubblicana.
Il linguaggio di questi momenti tradisce un non rispetto per questa verità.
E per le memorie del candelario civile di questo momento: per la festa del lavoro, un lavoro oggi non esercitabile pienamente da chi ce l’ ha e con pregiudizio di dignità non meno che economico, per una festa di liberazione dove i partigiani hanno dato la vita per la inviolabilità delle libertà e la supremazia della Carta costituzionale.
Finalmente oggi, e purtroppo nel silenzio del Guardiano della Carta, si leva un coro di giuristi che invocano la normalità costituzionale, e la voce di Presidenti emeriti della Corte costituzionale che ritengono che la democrazia non può essere sospesa neanche per un minuto e che la Costituzione non prevede un diritto speciale per situazione di emergenza. Questo non ci ha impedito di superare crisi come il terrorismo e crisi economiche applicando la Costituzione. Oggi si apre un pericolo vulnus: l’ idea che è possibile sospendere la costituzione e la democrazia per una ragione superiore e che possa decidere un capo. Quello che è successo in regimi nazionalistici che sono derivati in dittature catastrofiche.
Domani chiunque potrà invocare il precedente adducendo una situazione eccezionale e rivendicando la sovranità del decidere sopra la Costituzione e al di fuori del corretto rapporto tra le fonti del diritto.
Il terrore provocato all’ indomani della scoperta della diffusione del virus in Lombardia e delle vittime, che oggi si agita quale spettro sempre incombente, poteva e doveva essere gestito meglio. Si sono messi allora i malati anziani e contagiati nelle case di riposo come un cerino nel pagliaio. Dopo la dichiarazione nazionale di gennaio dello stato di emergenza si è svolta nello stadio di Milano partita di richiamo internazionale con movimento di diverse decine di migliaia di persone nello stesso posto. Negli ospedali lombardi i contagiati venivano accolti nei pronto soccorso e i medici senza alcuna protezione loro dovuta giravano poi per gli altri reparti. Alcuni virologi ancora, hanno fondatamente avanzato dubbi sugli impianti di condizionamento degli ospedali e oggi si pensa ad una ripresa in cui sono vietati i condizionatori perchè grave causa di diffusione del virus. A tutto questo non si è pensato tempestivamente e con lungimiranza, doti di politici di alto livello. Oggi quelle stesse autorità responsabili di quelle scelte, hanno deciso di percorrere la strada più facile quali tutori della pubblica salute. Direi una scorciatoia: tutti a casa e saremo noi a dire quello che è consentito con i nostri esperti scienziati, se visitare i congiunti o andare nelle seconde case, chi deve lavorare e dove e quando celebrare messa. Gli esperti scienziati che hanno visioni opposte. In Svezia, in Olanda, in Corea del Sud, dove si sono registrati meno morti che in Italia, lì altri scienziati hanno seguito un altro percorso scientifico. In Giappone poi le Autorità hanno significativamente detto che in Giappone quello che è stato fatto in Italia non lo si poteva fare perchè la legge vieta le restrizioni delle libertà e dei diritti fondamentali. Il Giappone e non l’ Italia, sino a qualche tempo fa culla del diritto.
Grazie ai vescovi che hanno fatto sentire la loro voce autorevole e morale.
Filippo Vitrano
Aldilà della pregevole rassegna delle posizioni in campo, mi pare che il tema sia stato solo sfiorato nelle ultime righe dell’intervento di Savagnone. La crisi del cattolicesimo convenzionale (quell’insieme di pratiche religiose che a detta di mons. Staglianó, rasentano l’eresia) doveva far scattare un campanello di allarme nei responsabili ecclesiali. I vescovi ed i presbiteri avrebbero dovuto cogliere l’occasione e farsi interrogare dai segni dei tempi. Non lo hanno fatto 400 anni fa, all’epoca dei grandi cambiamenti epocali della rivoluzione industriale, politica, culturale e scientifica, non lo hanno fatto 50 anni fa nel post concilio, non lo hanno fatto 5 anni fa dopo il convegno di Firenze e non lo stanno facendo nemmeno adesso dinanzi all’emergenza sanitaria. Il clero italiano ha perso sinora tutti i treni che la storia (che per un cristiano è luogo teologico) ha posto in agenda. La situazione è drammatica a causa di un radicato clericalismo che da 1600 anni opprime la chiesa. Papa Francesco sollecita un impegno per superare questa lebbra che blocca ogni rinnovamento ecclesiale, ma i vescovi ed i presbiteri (quelli italiani in promis) non lo ascoltano. Sono pochissimi quelli che si “espongono” a remare assieme a lui. La grande massa é indifferente al magistero del papa. Certo non lo dice esplicitamente. Il silenzio è assordante, ma questo è proprio il sintomo di una mancata sintonia. Nessun gesto profetico, nessuna parola evangelica, nessuna capacità di andare oltre al “si è sempre fatto così”. Rumoreggiano i tradizionalisti. Loro non esitano a palesare il loro pensiero anticonciliare e retrogrado. E non pensiamo che sia solo Viganó, con le sue calunnie, ad attaccare Francesco e le riforme conciliari. Esiste tutto un sottobosco raccapricciante fatto di gruppi su internet e di movimenti sul territorio. Dove stanno i vescovi ed i presbiteri dinanzi a tali inquietanti regressioni antirvangeliche? Dove stanno quando si vogliono ributtare in mare i migranti? Dove sono quando gli abusi sui minori escono dal buio dell’omertà e diventano notizia sui giornali? Dove stanno quando la mafia inquina la pietà popolare? Dove stanno quando appare sempre più evidente che non è più possibile adagiarsi su una pratica religiosa tradizionale e devozionalistica? Questo coronavirus poteva diventare un kairos, un tempo di grazia per avviare una profonda trasformazione delle nostre chiese locali, della auticomprensione del nostro essere comunità, delle nostre liturgie e del mado con cui viviamo nel mondo la nostra fede. Potevamo iniziare a riflettere seriamente sul nostro sacerdozio battesimale, su come il clericalismo abbia nel corso dei secoli annullato la personalità dei cristiani. Francesco nella Lettera al Popolo di Dio usa parole forti quando dice che il clericalismo “non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente”. In quante diocesi si é riflettuto su queste parole? Quante sono le iniziative per diffondere la parola del papa nelle comunità locali? Cosa si è fatto in concreto per contrastare gli abusi di potere, gli abusi di coscienza e quelli sessuali? Nulla. Forse qualche sporadica iniziativa a cura di qualche gruppo di volenterosi. Il vuoto. Il deserto. Un deserto che prende vita solo quando si avverte che la messa é minacciata. Un vuoto che si anima solo in seguito alle rivendicazioni dei tradizionalisti. Che tristezza. Dispiace assistere ad una compagine clericale che va riluttante a rimorchio del papa. E che forse non vede l’ora di archiviare questo Francesco che viene dalla fine del mondo. Proprio così, lui viene da un altro mondo. Non solo geografico, ma culturale, ecclesiale, oserei dire, una diversa mentalità di fede. Più vicina al Vangelo e quindi più vicina all’umanità. A quel Gesù laico e sofferente che tantissimi chierici non hanno mai conosciuto.