Un uomo tra gli uomini, sempre, anche nella sventura, anche nel dolore. Ecco in che cosa consiste la vita, questo é il suo compito (F. Dostoevskij).

Maurizio Muraglia

Maurizio Muraglia insegna Lettere presso il Liceo Classico annesso all’Educandato “Maria Adelaide” di Palermo. In qualità di esperto di questioni educative e didattiche svolge attività di formatore per docenti ed è presente nelle riviste specializzate. E’ opinionista dell’edizione siciliana di “Repubblica” sui temi della scuola. Gestisce il blog su scuola, didattica e letteratura https://mauriziomuraglia.com/
Maurizio Muraglia

Il rischio della specificità

Nel suo editoriale di gennaio Nuccio Vara, il Direttore responsabile della rivista “Poliedro” – mensile dell’Arcidiocesi di Palermo –, ha delineato lo scenario politico che renderebbe opportuna un’assunzione di responsabilità da parte del mondo cattolico per arginare le derive prodotte non tanto dall’attuale governo – che semmai ha dato loro voce – ma da una sorta di regressione antropologica degli italiani, fatta di ripulsa verso ogni forma di solidarismo.

Nel suo contributo Vara ha anche fatto riferimento alla Lettera aperta ai cristiani pubblicata da Giuseppe Savagnone su questo nostro sito.

Entrambi gli interventi esorcizzano la possibilità di “ricorrere a vecchie formule e a soluzioni sorpassate” (Vara). Occorrerebbe dunque creatività e modalità nuove di intervento e di presenza, da parte dei cattolici.

Serve un’entità ben definita?

Con profondo rispetto per questo tipo di approcci, che giustamente pongono un tema serio che è quello del rischio di ignavia politica, non da ora nutro qualche perplessità sull’identificazione dei “cattolici” come entità ben definita cui rivolgere appelli specifici.

Peraltro nei contributi che si leggono qua e là si oscilla, a mio parere alquanto illegittimamente, tra l’appellativo di cattolici e quello di cristiani, per quanto nel pezzo di Vara ci sia la spia della consapevolezza che i cattolici sono una parte dei cristiani (“i cattolici tra essi”, scrive).

La Lettera a Diogneto da lui peraltro citata riguarda, appunto, i cristiani, perché all’epoca della sua composizione la differenza tra cattolici, protestanti e ortodossi era di là da venire.

Purtuttavia non si leggono analoghi appelli al mondo protestante o al mondo ortodosso.

Sembra che solo i cattolici possano essere destinatari del discorso politico, forse per la loro storica (e non sempre edificante) sensibilità per questi temi.

Ma a parte questa precisazione di carattere ecumenico, anche qualora si voglia allargare il campo ai “cristiani”, a me pare che la loro caratterizzazione specifica non giovi principalmente a loro stessi, per due ragioni.

Sottovalutati o sopravvalutati?

Potrebbe sembrare infatti che appellarsi ai cristiani affinché escano “dalle sagrestie e dalle ritualità della vita parrocchiale” (Vara) sottenda una sorta di rischio, che magari gli altri cittadini non corrono.

Il rischio dell’autoreferenzialità e della chiusura dentro le proprie pratiche religiose. È come se si volesse ricordare loro che sono anch’essi cittadini e che in quanto tali devono farsi sentire. Non ne escono bene.

Ma neppure gioverebbe un appello che faccia riferimento ad una specifica riserva di senso che li distinguerebbe dagli altri soggetti che non hanno orientamento cristiano o religioso in genere.

Questa specifica riserva di senso proverrebbe dalla fede? Come dire: la professione di fede renderebbe i cristiani particolarmente “appellabili” rispetto agli altri cittadini in ordine alle problematiche puntualmente rappresentate da Savagnone e Vara?

L’insegnamento della Lettera a Diogneto

La circostanza che le testate (tra cui questa su cui scrivo) da cui provengono questi appelli rimandino all’appartenenza cattolica forse potrebbe, con apparente paradosso, mantenere a maggior ragione implicita l’assunzione di responsabilità civile anche di coloro che professano una fede.

In questo si realizzerebbe pienamente l’auspicio della Lettera a Diogneto: “I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio, né per il modo di parlare, né per la foggia dei loro vestiti… Abitano ognuno nella propria patria, ma come fossero stranieri; rispettano e adempiono tutti i doveri dei cittadini, e si sobbarcano tutti gli oneri come fossero stranieri; ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera”.

Differenza cristiana?

Come se fossero. Questa espressione rimanda ad un dato interiore, non ostentato. Infatti la “stranierità” dei cristiani non riguarda la loro azione nel tessuto civile, bensì il loro statuto sacramentale e, si potrebbe dire, ontologico, scarsamente pertinente per il nostro discorso.

È vero, come dice Vara, che questo stare nel mondo senza essere del mondo, costituirebbe, parafrasando un bel libro di Enzo Bianchi, la differenza cristiana, ma questa “modalità esistenziale” a mio modo di vedere non prelude necessariamente a specifici appelli.

Un altro bel libro di Bianchi peraltro si intitola “Non siamo migliori”. Qualora gli appelli anche involontariamente lo presumessero. Cosa che conoscendo personalmente i due autori mi sento di escludere categoricamente.

Gli appelli ai cristiani (o cattolici, nella fattispecie) contengono dunque quanto potrebbe contenere qualsiasi appello ai cittadini. Perché qui di politica si parla, non di teologia o di spiritualità.

La fede di un Puglisi e l’agnosticismo o ateismo (così egli diceva) di un Falcone, rispetto al terreno su cui hanno sacrificato le loro vite, pari sono.

Che poi le motivazioni profonde cui ciascuno dei due attingeva fossero differenti, non rende differente il valore civile della loro azione.

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2 Response Comments

  • pietro buccheri  febbraio 3, 2019 at 6:22 pm

    Scusi professore Muraglia, forse non ho capito. Lei ritiene che interventi quali quelli di Nuccio Vara e di Giuseppe Savagnone pongano all’attenzione un tema serio, che è quello del rischio della ignavia in campo politico; che magari soltanto rischio non è, bensì una realtà che entrambi gli Autori constatano. Contro tale ignavia, entrambi gli Autori, come lei riferisce, sollecitano un’assunzione di responsabilità da parte del mondo cattolico per arginare le conseguenze ….. di una sorta di regressione antropologica degli italiani; ma lei è perplesso sulla opportunità di rivolgere appelli in tal senso. Io non ho capito il vero motivo della sua perplessità. E’ perché gli appelli sono rivolti soltanto ai cattolici e non a tutte le fedi cristiane? Di questa limitazione lei evidenzia i rischi:
    rischio dell’autoreferenzialità (??) in quanto classe di cittadini “che si fanno sentire”. “È come se si volesse ricordare loro che sono anch’essi cittadini”. Ma dico io: perché questa obiezione, non sono cittadini anch’essi?
    Lei conclude: “Gli appelli ai cristiani (o cattolici, nella fattispecie) contengono dunque quanto potrebbe contenere qualsiasi appello ai cittadini. Perché qui di politica si parla, non di teologia o di spiritualità”.
    Allora, secondo lei, anziché estendere a tutti i cristiani l’invito a combattere l’ignavia, sarebbe stato opportuno non rivolgerlo per niente neanche ai soli cattolici perché, sempre secondo lei, non pertinente con la teologia? oppure non ho capito il suo articolo?

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  • Giuseppe Savagnone  febbraio 3, 2019 at 6:57 pm

    Per mantenere aperto lo spazio del confronto, che è uno dei frutti del nostro cooperare in questa redazione, faccio qualche riflessione sull’articolo dell’amico Maurizio. La prima riguarda i fatti: sociologicamente, in Italia, il cattolicesimo costituisce un dato oggettivamente esistente e rilevabile, almeno secondo le statistiche. Può esse dunque sensato rivolgersi ai cattolici supponendo, pur nelle loro diverse gradazioni di adesione, una loro omogeneità culturale di fondo, che storicamente li redne più sensibili a certi temi e meno ad altri (come del resto Maurizio di passaggio riconosce).
    La seconda riflessione rigarda la possibilità che essi possano essere richiamti a una “rserva di senso” derivante dalla loro fede e riguardante la sfera temporale (non solo la spirtualità ela teologia) . A questo proposito vorrei notare che nella lettera a Diognèto si dice, è vero, che i cristiani non hanno segni esteriori di riconoscimento – proprie città, proprie “divise”, etc. – che li distinguano dagli altri uomini, ma non si rinunzia ad assegnare loro un ruolo, che è anche un compito impegnativo, perché si aggiunge che «come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani». Dal vangelo scautrrisce un modo di vedere l’uomo, i rapporti umani, la soceità, che la Chiesa esprime da sempre in uno specifico insegnamento “sociale”. non si nega, con questo, ceh dei non cattolici e non cristiani possano impegnarsi anch’essi (e di fatto anche più gneerosamente dei credenti). Ma chi è cristiano non può ignorare il suo specifico patrimonio di motivizioni, che gli chiedono di non restare a guardare quando le discriminazioni, l’ingiustizia, la violenza, dilagano, come avviene in questo momento nel nostro Paese. Questo, semnplicemene, ho voluto dire.

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